IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - La lunga primavera della poesia

 

Ester Guglielmino


Ti respiro accanto, finalmente


Se fisso con la costanza dell’acqua

i chiaroscuri che riflettono i tuoi occhi,

come fossero quelli di un’attrice qualunque

degli anni d’oro della commedia americana,

e rimescolo poi tutti gli altri colori

che rimangono fuoricampo, alla mercé

di mani che non conosco, macchine da presa,

fili che si attorcigliano ad altri fili,

simulando quasi un amore elettrico,

vengo preso come da uno spasimo leggero,

un singulto che accelera i movimenti del cuore

e perde un battito proprio lì, sopra il tuo petto.

E so anche che le distanze a questa età

non si misurano in metri ma in occasioni

che vanno colte come fiori che sbocciano

fuori stagione e ci si chiede il perché

di tanto ritardo, se il sole è sempre stato presente

e la luna non ha commesso errori

di cui doversi pentire all’improvviso. È il tuo odore,

rilasciato dalla corolla, a spargere semi

in questa stanza che ha forma di un trapezio

e di notte si trasforma in un ricettacolo di sogni,

barriere che crollano di schianto,

amanti che si incontrano in stazioni di provincia

mentre il treno della verità è già in partenza.


Ti dipingo stilizzata su un tronco di legno

abbandonato in un angolo della campagna.

E cammino per le vie del paese,

pensando ai dettagli che un tempo

separavano il bene dal male

mentre adesso sono invasi da erbe infestanti.

Calcolo i segni che lasciano combaciare

i tetti di due case in rovina

e ti immagino seduta

sul gradino più alto di una scalinata

che porta in un quartiere dove tutto è mistero

e rassegnazione composta.

Si può osservare la città dall’alto

pronunciando un “ti amo”,

certi di non essere ascoltati da anima viva.

È così che comincia il percorso

verso la felicità che ci prende alla sprovvista,

con la smania di arrivare chissà dove,

attraversare precipizi, volando

anche senza avere ali, e poi

molla la presa allo sfumare

dell’ennesimo coagulo dei sentimenti.

Davanti a un portone che ci era stato amico

per un’ora soltanto e noi avevamo pensato

questa sarà la nostra casa

per un anno intero e quello seguente.


Sei amore che non trascende e non scolora.

Il senso che ho del nulla che si riempie

di minuscole goccioline di ardesia

che mutano in un istante la consistenza

delle dune di sabbia e mi mostrano il mare

per come è stato veramente.

Quando io e te eravamo invisibili

agli specchi degli autogrill,

ai rintocchi delle campane della domenica

e agli sguardi quasi sempre muti

della gente vestita a festa.

Sei la pazienza che mi riduce ad osso

che si rimpolpa della tua carne

e rinasce in un uomo diverso,

capace di imprese titaniche

quando il resto del mondo è ormai in tempesta.

Mi annunci una pace nuova, senza filtri,

dalle tue finestre sospese nel vuoto

e a me pare di poterti abbracciare

senza chiedere aiuto ai mostri

che tormentano le mie mattinate

sopra le parole degli altri

scritte in colonne che si succedono

in pagine dai numeri strani

e dimensioni che a volte proprio non capisco.

E ti vedo percorrere viali,

andando dritto e poi di traverso,

fermarti davanti a un semaforo

e chiedere scusa ad un passante,

contare fino a dieci e disegnare

un arco con la mente, poi rivestirlo

di piante rampicanti, che hanno spine

ma sono in grado anche di regalare

sfumature nuove a chi si azzarda a muovere passi

fuori dalle vie consuete.

Spesso, non so come, mi appari in sogni color pastello

che si riappropriano di significati che credevo perduti,

e mentre provo a tutti i costi a ritornare me stesso,

ti respiro accanto, finalmente. Certo

che nessun regista mi chiederà mai di ripetere la scena.


Salvatore Ferranti, 2 giugno ‘25




È un due giugno sonnolento, una festa della Repubblica che si sfalda nel meriggio d’una primavera che - qui al Sud - è anzitempo diventata estate. Un leggero frullio risveglia il cellulare dal torpore tipico delle feste un po’ indecise, apro il pdf e ne scorro rapidamente il contenuto, poi m’immergo nella lettura delle due o tre pagine di poesia che, visto il mittente, avevo messo in conto. Chi s’avvicina per la prima volta alle poesie di Sal Ferranti resta sempre sorpreso dall’insolita ‘generosità’ del suo poetare, dal ritmo lento dei suoi versi che si stendono limpidi sulla pagina per poi rincorrersi l’uno appresso all’altro in piccole volute leggere come i fotogrammi di certi film in bianco e nero, appartenenti alla migliore produzione del cinema italiano. Io no, conosco i tempi e i modi di quest’insolita poesia che ho imparato, negli anni, a leggere e apprezzare. Sal è un collega ma anche un caro amico, ho contezza - per aver letto diverse cose - della sua vastissima produzione in prosa (in gran parte nel cassetto, ancora!), così come mi è ben nota la cifra particolarissima della sua produzione in poesia, una poesia che di dipana lungo spazi di sicuro più estesi e pretenziosi di quelli che, abitualmente, si è soliti concedere a questo genere letterario. Infatti, alla poesia la modernità sembra aver imposto, di preferenza, un’idea di brevità, di rapida fruizione, di testo destinato a concludersi nel respiro di poche iconiche battute; un’idea che, a pensarci bene, urta con l’originaria destinazione narrativa conferita alla parola poetica. Infatti, guardando alla letteratura da una prospettiva diacronica più ampia, ci si rende subito conto di quanto la prosa sia un’invenzione relativamente recente; si pensi ai 9.896 esametri che compongono l’Eneide o, ancora prima, ai 15.696 dell’Iliade e ai 12.007 dell’Odissea oppure, andando sempre più a ritroso, alle 12 tavolette su cui corrono fitti fitti i versi dell’Epopea di Gilgamesh. Una tradizione accolta da tanta poesia italiana di impianto narrativo, dalla Comedìa dantesca ai Trionfi di Petrarca al Furioso dell’Ariosto. La poesia, quindi, non nasce ab origine per colpire il lettore nello spazio di una manciata di versi, nasce piuttosto come forma distesa e ritmata di narrazione, nasce per raccontare eventi che si dispiegano nel tempo e nello spazio, per tratteggiare immagini che si susseguono con andamento ora piano, ora più concitato ma mai difforme dall’intenzione originaria: ammaliare l’attenzione del lettore/ascoltatore, condurlo per mano dentro il piacere del racconto, immetterlo all’interno di un’atmosfera raffinata. E, seppur con spirito decisamente anti-epico, è questa dimensione narrativa che la poesia di Ferranti recupera, chiedendo al lettore il tempo di assecondare queste lunghe fughe di parole, la disponibilità a lasciarsi avvolgere in un gioco inesauribile di immagini, che scivolano rapide l’una sull’altra e ti obbligano, fino all’ultimo, a trattenere il fiato. 


Io scrivo, e tu prendi consistenza sotto le mie dita


Era la poesia che volevamo scrivere insieme.

Con sfumature che andassero dal blu al verde chiaro,

il sole tra le persiane, l’amaca fissata

tra due rami possenti di alberi cari al nostro recente passato,

e poi una musica in sottofondo

a ricordarci che eravamo stati bambini un tempo

e che la vita va presa così come viene,

come quando si ha sete e si beve senza pensarci un attimo

a una fontanella di paese. Il lungo viaggio

e lo strappo quando di anni ne avevamo ventuno

e qualche mese, e tu correvi scalza tra le sabbie

di deserti che somigliavano a spiagge e io

ti fotografavo con le mani alzate

e gli occhi che si impigliavano nell’obiettivo

se eri a favore di luce, altrimenti

si confondevano con l’idea che avevamo del mare.

Era il futuro che ci corteggiava

con il coraggio di un cervo di fronte a un cacciatore.

Tu dicevi spara! e io rimanevo lì,

con le armi a farmi da scudo,

la maglietta stinta, la borsa di jeans a tracolla,

il respiro che mi vincolava

sempre allo stesso tragitto tra la strada e le onde basse.


Era la poesia che avevamo scelto di non rivelare agli sconosciuti.

Per questo l’avevamo avvolta in un telo di lino,

bagnata con una fragranza leggera,

nascosta come si nascondono i tesori,

in antri oscuri o sotto strati duri di madre terra.

Ma le parole poi ci rimbalzavano addosso lo stesso

e piangevamo se c’era da piangere

oppure ci baciavamo dove l’abbaglio

a una certa ora arrivava sempre in diagonale.

Io pensavo all’immagine che sarebbe risultata

dallo sviluppo successivo di un rullino da ventiquattro,

mentre tu eri già altrove e mi toccava rincorrerti

lungo filari di vigne che appartenevano a vecchi

dalla barba bianca che bevevano il vino dai fiaschi,

e infine raggiungerti dove il tronco di un grande gelso bianco

affondava come il piede di un gigante

nel terreno invaso dalle formiche

e da un odore acre di terra che si rimargina

dopo uno stupro. Il fuoco che dai nostri petti

arrivava fino a mezz’aria, rimanendo a galleggiare

così per ore, fino a quando dopo aver saziato

la smania dei corpi tornavamo alla vecchia casa

con le dita intrecciate e le facce umide

e le tasche piene di pietre di ogni colore.


Era la poesia che ci veniva incontro nelle notti di luna piena.

Tu dicevi è vero tutto ciò che raccontano i suoi versi,

e allargavi le braccia sul letto

dove il lenzuolo non era mai bianco,

e a me sembravi una donna che era stata crocifissa

prima dei suoi giorni. Ti cercavo le vene

sugli avambracci, sui polsi e sul seno,

disegnavo i percorsi su un taccuino

che tenevo a portata di mano,

nel primo cassetto di un comodino di finto legno.

Scrivevo di com’era la nostra vita allora

e a volte i nostri discorsi diventavano racconti.

Storie da ballare, nello spazio che separava

il nostro senso dell’orientamento dall’ignoto,

il caldo dal freddo, i contorni di una lampada

a petrolio spenta dalle meraviglie di una stella

che ardeva da milioni di anni in qualche altra galassia

di cui ignoravamo nome e distanza.

Con lentezza estrema mi indicavi una direzione.

Ti stendevi sull’erba e non era più la tua bocca

a soffiare all’indietro. Era il respiro di un fiore

che si apriva alla notte e mi induceva

alla caduta più dolce. Quante volte

morimmo insieme su quel tratto di costa?

Non mi riesce di contarle, non lo so dire;

se ci provo scopro d’essere sempre in difetto

di numeri che vanno dal sette al nove.

Capisco solo che il ritorno in vita era sempre accompagnato

da un improvviso atto d’amore.

Simile a quello di un soldato,

a cui dopo una lunga guerra

riesce finalmente di ritornare da chi l’ha generato

e credeva d’averlo già perduto.


È la poesia che ogni tanto ancora mi torna in mente.

Nei sogni, nelle distanze che percorro senza sosta e senza meta,

nei pensieri che si attorcigliano come rampicanti

su un foglio di carta vergine e urlano al centro

del mio mondo fantastico eppure così reale:

scrivi del tuo amore, adesso! Non ti fermare, vinci la sorte!

Io scrivo, e tu prendi consistenza sotto le mie dita.


Salvatore Ferranti, 19 maggio ‘25


Bisogna però chiedersi che tipo di poesia voglia essere questa, che deborda con invadenza dai nostri consueti spazi di attenzione. Sul piano stilistico, è una poesia che, pur affidandosi apparentemente a una forma piana e a un andamento quasi prosastico, si rivela invece alla lettura sempre dotata di una forte tensione ritmica interna, sempre capace di mantenere una cadenza sonora e musicale, di suscitare una fascinazione uditiva costante su chi legge o ascolta. Parimenti, anche l’uso di un registro linguistico medio si eleva mediante la capacità di costruire immagini preziose e desuete, disseminate sulla pagina come tocchi pregiati di colore, voli di rondine improvvisi che restano alti pur non battendo - volutamente - cieli troppo pretenziosi. Ne emergono sfumature e tonalità diverse, cangianti eppure tutte in egual misura partecipi all’efficacia del risultato: quello di dare voce a una poesia composita, armoniosa e al tempo stesso dissonante, una poesia consolatoria ma anche foriera del più lucido e consapevole sconforto. Perché questa è una poesia impastata di ricordi, della nostalgia d’un passato trascorso eppure mai vissuto appieno. Filari di vigne ritorte dagli anni e di canneti assiepati lungo le dune si stagliano nitidi nell’azzurro d’un cielo sempre terso, eppure fin troppo caldo per non ardere di passione e di paura; case accoglienti fanno sperare in ristori temporanei, all’ombra di pergolati che promettono un rifugio transitorio dalla vita. È un paesaggio arso dalla canicola e dal tempo quello che ci propone il poeta, luminoso eppure di sovente inospitale, in cui agiscono presenze-assenze disegnate con contorni nitidi o in cui ristagnano oggetti abbandonati dall’incuria di chi li ha posseduti, correlativi oggettivi di montaliana memoria a fare da contraltare all’impeto di sentimenti che bruciano rapidi nella loro essenza, pur continuando a palpitare come uniche vere promesse di senso tra quanto è andato già sprecato. Tuttavia non c’è nulla di sbiadito o di edulcorato in questi versi, persone e cose perdurano in una dimensione reale e quotidiana, nel loro spontaneo essere e vivere e morire, caricandosi di significati metaforici e lasciando intravedere, dietro una patina di quotidianità, un valore simbolico enigmatico e profondo.


Prima di morire e rinascere fiori.


Era di una sfumatura leggera spesso, e senza tatto,

che mi riportava alla pittura di Leonardo

e alle variazioni di tono sugli sguardi delle madonne,

a vele quadre e mai latine tuttavia,

e induceva ogni volta all’agire d’impulso

la tua insofferenza per il verde e le malinconie leggere,

che io non sapevo mai da che parte

sarebbero andate a finire,

con tutta quell’inconsistenza dell’esistere

sulle travi di acciaio dei capannoni

dove si allevavano animali all’ingrasso,

e il vetro delle bottiglie rotte,

e le matite che almeno una volta al giorno

bisognava temperare.

Ho salvato tutto su un dischetto

da uno virgola quarantaquattro mega,

e lì ho scoperto che c’era già il tempo

a comandare sulle rovine che credevo

di poter rimettere in sesto per l’ora di pranzo,

come un bravo muratore

che dopo aver assistito a una fenomenale tempesta

si rimbocca le maniche e comincia

a impastare cemento. Tu mi guardavi

da una delle fotografie che erano venute peggio,

perché il sole era ancora alto

e tenere gli occhi aperti era un’impresa da titani.

Eri bellissima lo stesso,

anche quando, con un po’ di pazienza,

riuscivo nell’impresa di ingrandire lo scatto.

Quella tua bocca, così gentile

ma a volte anche tanto oscena

da farmi star male,

e le braccia appese al mio collo bianco

e senza vene evidenti a salire

e scendere giù in basso,

le ringhiere di ferro arrugginito

che ci facevano pensare

a quanto è assurda la questione dell’ossigeno

che rovina tutto,

persino gli angoli più illuminanti

del panorama che investiva i nostri cuori

di un’aria che credevamo nuova,

e invece era lo stesso film

che ogni volta si ripeteva sul display,

sporco di sale e pulviscolo del deserto.

Non conoscevamo ancora

la potenza di un piano sequenza

che segue due vite,

sempre con garbo e maestria,

da una distanza certa.


A volte è solo la notte che retrocede fuoricampo

e si nasconde dietro le mura di alberghi abbandonati.

Me l’hai mostrato al mare,

in un agosto che aveva disegnato per giorni

onde troppo basse per potere essere cavalcate

dalla nostra mania del viaggiare a poco prezzo.

Ti piaceva simulare il vento

che sibilava tra le canne sopra le dune

dove la sabbia è calda e si sprofonda,

e poi piangere per un pallone

che si è sgonfiato all’improvviso.

Mi dicevi che le spine

sono il bene e il male di questo mondo,

e camminando insieme dove l’acqua era bassa

con tutto l’amore che avevi dentro

e con un bastone appuntito

stabilivi il confine. Era il tuo abbraccio

che terminava la sua corsa,

non so come, dove l’orizzonte risulta curvo

e poi sparisce alla vista e a tutti gli altri sensi

che riteniamo vitali al nostro equilibrio di scimmie evolute.

Perché era facile indovinare

la direzione dei tuoi passi,

ma non il verso. E allora

c’erano giorni in cui stavo

ore ed ore ad aspettare il tuo rientro

in quella casa di paglia e fango,

e gesso che mi si sgretolava tra le dita

quando tentavo di aggrapparmi alle pareti

e scrivere un verso che mi riportasse

a dove tutto era iniziato, nel grumo impastato

di acqua e farina di una domenica di aprile.

Non so dire dove tuttavia,

ma era la tua voce a moderare

i miei impeti feroci e a ridurli

a timido sfarfallio tra due lampade spente,

e perciò sono diventato pietra

e ho imparato l’arte della resistenza alla pece.

Se ti chiamo da lontano,

in un codice che abbiamo stabilito

all’ombra di un grande albero di frutti rossi,

è perché il gusto delle cose quotidiane

mi ferisce e lacera e mi lascia

a dondolare come un secchio di ferro

sotto la carrucola di un pozzo di campagna.

Queste due dita d’acqua, ti prego,

almeno beviamole insieme.

Prima di morire e rinascere fiori.

Salvatore Ferranti, 18 aprile ‘25


È, ancora, una poesia del ‘tu’, di un tu allocutorio appassionato e interrogativo assieme, che chiama in causa di continuo una figura femminile ambigua e misteriosa; una donna che è madre, amante, sposa e che, pur palpabile e viva, resta sospesa in una dimensione rarefatta e atemporale, eternamente in bilico tra le messi copiose d’un giugno antico e le macerie pietrose d’una estate attuale che brucia la pelle, senza mai riuscire a scaldare davvero. È una presenza costante e reiterata, che ci prende per mano e ci conduce lungo una strada che sa di passato, e un passato che sa di ricordo, e un ricordo che si tinge di rimpianto decadente per scivolare infine verso un presente di orizzonti caduti. È, questa, una poesia di contrasto fra l’abbondanza d’una volta e la mancanza dell’ora, fra l’illusione del passato e la disillusione del presente. E si avverte nell’aria questo inestricabile impasto di dolcezza e di macerie, questo precipitare degli eventi in cui l’età buona si è smarrita, cedendo il passo a una inevitabilmente peggiore. E la sentiamo pure nostra questa crisi esistenziale del poeta che è anche la crisi di un tempo che ha smarrito la bellezza delle amanti e la gioia delle madri, la positività ancestrale di un femminile che tutto preserva e tutto include. Allora, forse, dovremmo saltare il simbolo a piè pari e, da lettori attenti, chiederci a chi corrispondano davvero i lineamenti belli e tristi di questa interlocutrice sibillina; forse a quelli della vita che scorre, del tempo che macina le attese o, com’è più probabile, a quelli di un’arte antica – quella poetica appunto – la cui voce insegna a moderare gli impeti feroci e a ridurli a timido sfarfallio tra due lampade spente. Perché nessuna madre, amante o sposa - per quanto crocifissa prima dei suoi giorni - smarrisce mai il suo fascino negli anfratti del tempo, anzi la sua bellezza resta avvolta in un telo di lino,/ bagnata con una fragranza leggera,/ nascosta come si nascondono i tesori,/ in antri oscuri o sotto strati duri di madre terra. Sempre pronta a farsi acqua cristallina da bere Prima di morire e rinascere fiori.


Nota biografica sull’autore


Salvatore Ferranti nasce a Ragusa, nel 1973. È insegnante di Lettere presso l’Istituto Verga di Modica. Vive a Scicli con la sua famiglia. Appassionato di cultura americana contemporanea, coltiva da anni la passione per la scrittura. Ha pubblicato il racconto lungo Amico, ti aspetto per Urban Apnea; il romanzo La legge della piuma per PlaceBook Publishing; la trilogia di romanzi Scompartimento rosso con braccioli per Ivvi. Un suo racconto è stato inserito nell’antologia Siciliani per sempre, curata da Giusy Sciacca per Edizioni della Sera. Ha curato due volumi de I racconti della sera per Ivvi. Per PlaceBook Publishing ha pubblicato le raccolte poetiche E tutte le olive cadute a terra dopo la bufera, La vera poesia del nostro tempo, Tre parole e sono già da un’altra parte.




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