LE MONOGRAFIE DI FINESTRE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Giovanna Cristina Vivinetto (a cura di D. Bellomusto, V. Bruno, S. Giammillaro, D. La Mantia, M. Valenti)

 


Prosegue il nostro progetto di redazione"Cinque Finestre sulla poesia", una presentazione di cinque testi dello stesso autore/autrice commentati da cinque redattori del nostro blog. Oggi presentiamo cinque testi di Giovanna Cristina Vivinetto commentati dai cinque redattori del direttivo di Finestre. Buona poesia! 

_________


Noi eravamo fra quelli

chiamati

contro natura. Il nostro esistere

ribaltava e distorceva le leggi

del creato. Ma come potevamo

noi, rigogliosi nei nostri corpi

adolescenti, essere uno scarto,

il difetto di una natura

che non tiene? Ci convinsero,

ci persuasero

all’autonegazione.

Noi, così giovani, fummo

costretti

a riabilitare i nostri corpi,

obbligati a guardare in faccia la

nostra

natura e sopprimerla con

un’altra.

A dirci che potevamo essere

chi non volevamo, chi non

eravamo.

Noi gli unici esseri innocenti.

Gli ultimi esseri viventi, noi,

trapiantati nel mondo dei

morti

per sopravvivere.

 

(da Dolore Minimo, Interlinea edizioni, 2018)

 

*

"Noi" in posizione forte apre e chiude la poesia e la attraversa più e più volte.

Riecheggia Salvatore Quasimodo: "Come potevamo noi cantare"; richiama la volontà di darsi voce, difendersi, affermarsi. È poesia della "Resistenza" a una mancata promessa di rispetto, libertà, diritto all'autodeterminazione. È una poesia che combatte il pregiudizio verso la transessualità. Ogni verso è un grido, uno schiaffo, un graffio all'indifferenza che regna imperterrita "nel regno dei morti".

Con parole chiare, sintassi lineare e agilità di pensiero questa poesia dimostra che si può non rinunciare all'impegno, alle idee, alla grande ambizione del trasmettere significato, del lasciare in eredità la testimonianza di ciò che siamo e che la poesia, in un mondo che  giudica e condanna molt* a essere ciò che non si vuole, ciò che non si è, può essere una buona strada per dire ciò che siamo, ciò che vogliamo e io penso che anche Eugenio Montale sarebbe stato lieto di  sapersi nascosto tra le righe di una poesia così luminosa e forte. La poesia di Giovanna Cristina Vivinetto dialoga con le più grandi voci del Novecento, ma ci trascina nella trincea della nostra contemporaneità e noi di questo la ringraziamo. 

Doris Bellomusto


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Tutto iniziò con l’avere confidenza.

Eravamo solo noi due e il corpo.

Dapprima c’ero io soltanto,

lei venne poi con l’urgenza piccola

del vento, della pioggia, delle radici

– di tutto ciò, insomma, che non si può

controllare ma semplicemente accade.

Riposava nell’ordine inviolato

della natura. Forse da secoli

era iscritta in una qualche cellula

tramandata col tempo fino a me.

Perciò non seppi, non potei scacciarla.

Dovetti, come ogni destino, prenderne

atto. Forse era qui per salvarmi.

Era me più di quanto io stesso

potessi appartenermi. Mi fidai.

Così iniziai a darle spazio.


(da Dolore minimo, Interlinea Edizioni, 2018)


 *

“Tutto iniziò con l’avere confidenza” … Con la grazia ferma dei suoi versi, Giovanna Cristina Vivinetto ci conduce dentro il momento originario di un riconoscimento: non un evento traumatico o spettacolare, ma qualcosa “che non si può/ controllare ma semplicemente accade”, come il vento.

Qualcosa di antico e silenzioso attraversa la poesia, una tensione commossa verso l’invisibile, una voce che si affaccia da un tempo precedente al linguaggio, da una soglia interiore in cui tutto è ancora indistinto, ma già reale.

È il racconto di un inizio – non tanto di un processo, quanto di un’intimità, di un ascolto.

Subito ci troviamo in uno spazio protetto, dove il corpo è un mistero da avvicinare senza forzarne i confini. Non ci sono clamori né scarti drammatici: solo un "noi due" – il soggetto e quella parte di sé che si rivela lentamente, come fanno le radici sotto la terra, come la pioggia che cade senza che nessuno la invochi.

Non si tratta, però, di un’intrusione impetuosa, ma di un’apparizione naturale e ineluttabile, di un’iniziazione gentile ma irrevocabile: “lei venne poi con l’urgenza piccola/ del vento, della pioggia, delle radici” – immagini elementari e primigenie, che evocano il legame profondo tra identità e natura, tra verità e necessità biologica.

Possiede la grazia e la delicatezza del femminile:“lei” non entra in scena per irrompere, ma per affiorare.

È qualcosa che era già scritto dentro, “iscritta in una qualche cellula”, e che solo adesso trova ascolto. Non si tratta dunque di una scelta arbitraria, ma dell’accettazione profonda di ciò che si è sempre stati, fedeli ad un’origine profonda.

Non c’è una frattura tra identità percepita e identità assegnata, tra un sé autentico e un corpo non ancora corrispondente, bensì un’accoglienza matura, un’epifania biologica e spirituale:

“Era me più di quanto io stesso potessi appartenermi”:

Il lessico scelto – “ordine inviolato”, “destino”, “salvarmi” – è delicatamente solenne, quasi sacrale. E nella confessione finale – “Mi fidai./ Così iniziai a darle spazio” – si compie l’atto fondante: la fiducia in ciò che si è, il coraggio di assecondare una verità interiore più grande dell’“io” conosciuto. La transizione non è qui trauma, ma un gesto di cura, un atto di amore e di ascolto, un ampliamento dello spazio interiore dove l’identità può finalmente respirare.

L’anima che finalmente si apre al proprio nome. Non c’è clamore: c’è verità, c’è la vita.


Viola Bruno

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Le vie del paese

erano sezioni compatte di buio

che si incrociavano a scacchiera.

 

La memoria del passo

si tramandava uguale

ad ogni incrocio.

 

Nelle sere d’estate

madonne portate in spalla

marciavano di casa in casa

e con indolenza assolvevano

peccati simili tra loro.

 

Erano strade piene di fede,

occhielli di ottone

e discrete finestre socchiuse.

 

Nella quiete di quelle strade

la malattia giunse d’agosto.

Travolse le madonne e gli occhielli,

ruppe gli incroci,

non diede il tempo

per chiudere le finestre.

 

Mi inchiodò sprovvista di fede

su una croce qualsiasi

della grande scacchiera.

 

Mi scoprì inadatta alla simmetria

delle proporzioni – alla retta

sempre fedele a se stessa.

 

Imparai così dall’imperfezione

degli alberi nel farmi ramo sottile

e spigoloso per tendere

obliquamente

alla verità della luce.

 

(Dolore minimo, Interlinea ed. 2018, dalla sezione Cespugli d’Infanzia)


* 

In “Dolore minimo” Vivinetto descrive in versi un percorso di rinascita, transizione o, meglio ancora, scoperta del (vero) sé. La potenza del suo poetare, (tale da far parlare Alessandro Fo e Dacia Maraini di un vero e proprio “caso letterario”) risiede, a modesto avviso di chi scrive, nella sapiente riuscita di diradare le maglie di un’esperienza strettamente personale, quasi intima, seppur con inevitabili ricadute nel sociale, estendendole ad un messaggio che definirei più di consapevolezza, che di speranza.

Siffatto processo di rarefazione dell’Io lirico si intercetta proprio agli albori del predetto percorso di iniziazione ontologica al sé, dove si realizza, appena dopo l’impresa di faticosissima auto-accettazione (non a caso denominata malattia dall’autrice), il primo strappo con il luogo di nascita.

In questi versi, tratti dalla prima sezione Cespugli d’Infanzia, è già presente l’urlo dello strappo, le doglie del parto quale seconda ferita originaria, cui accede la nuova nascita dell’autrice.

Emblematico il riferimento al paesaggio urbano siciliano, luogo natio della nostra, caratterizzato da “sezioni compatte di buio/che si incrociavano a scacchiera”, che costituiscono metafora primaria e privilegiata dell’assedio asfissiante della storia secolare di ogni tradizione umana sempre uguale nella memoria ad ogni passo. La casa è allegoria onirica nota alla psicanalisi di matrice antropologica, volta a rappresentare la propria “dimora interiore”. L'immagine delle “case che si allontanavano” è, peraltro, elemento ricorrente in "Le Notti Bianche" di Fëdor Dostoevskij, trasfigurando simbolicamente la solitudine e il senso di isolamento del protagonista, o, ancora le case assumono umana pregnanza in Thierry Metz, dove in “Dire tutto alle case” (Interno Poesia, 2021) si scorge “L’immane fatica di dire tutto alle case/ Lo sforzo di estrarle dall’argilla”

È significativo, dunque, come qui la “casa” assurga a duplice accezione bidirezionale: strappo dalla “simmetria/delle proporzioni – alla retta/sempre fedele a se stessa” del “luogo d’origine” e strappo dalla propria identità “originaria”, o meglio “eterodeterminata”. La condanna si unisce al dolore recando in sé anche una stigmatizzazione di quell’atteggiamento omertoso assunto di fronte ad ogni scandalo, che richiede una presa di coscienza e/o uno schieramento di denuncia (Nella quiete di quelle strade/la malattia giunse d’agosto./Travolse le madonne e gli occhielli,/ruppe gli incroci,/non diede il tempo/per chiudere le finestre). Così come nelle madonne portate in spalla s’insinua l’amara constatazione di una religiosità di facciata, addomesticata da peccati simili tra loro, idonea a preservare il decoro della forma piuttosto che salvare l’anima, atteso che, per il riscatto di quest’ultima, bisognerebbe essere obliqui come i raggi del sole, imparare l’imperfezione dagli alberi nel farsi ramo sottile per giungere, infine, alla verità della (propria) luce.

Stefania Giammillaro

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Quando nacqui mia madre

mi fece un dono antichissimo,

il dono dell’indovino Tiresia:

mutare sesso una volta nella vita.

 

Già dal primo vagito comprese

che il mio crescere sarebbe stato

un ribelle scollarsi dalla carne,

una lotta fratricida tra spirito

e pelle. Un annichilimento.

 

Così mi diede i suoi vestiti,

le sue scarpe, i suoi rossetti;

mi disse: «prendi, figlio mio,

diventa ciò che sei

se ciò che sei non sei potuto essere».

 

Divenni indovina, un’altra Tiresia.

Praticai l’arte della veggenza,

mi feci maga, strega, donna

e mi arresi al bisbiglio del corpo

– cedetti alla sua femminea seduzione.

 

Fu allora che mia madre

si perpetuò in me, mi rese

figlia cadetta del mio tempo,

in cui si può vivere bene a patto

che si vaghi in tondo, ciechi

– che si celi, proprio come Tiresia,

un mistero che non si può dire.

 

(da Dolore minimo, Interlinea, 2018)


*

Giovanna Cristina Vivinnetto trasforma un episodio del mito in un dramma personale. Chi è Tiresia, infatti? Secondo Esiodo, un uomo che, passeggiando su un monte, uccise la femmina di un serpente che si stava accoppiando. Per questo, fu tramutato da uomo a donna e visse in questa condizione per sette anni, provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. In seguito tornò uomo. Per questo suo aver provato entrambi i generi, fu chiamato da Zeus e Giunone, che discutevano se in amore provasse più piacere l'uomo o la donna. Interrogato dagli dei, rispose che la donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea lo fece diventare cieco per avere rivelato tale segreto, ma Zeus, per riparare il danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni.

Qui il passaggio contemporaneo da una sessualità ad un'altra trova un motivo eziologico, per dirla con Callimaco. Per la Vivinnetto il dramma dell'indovino è stato "un ribelle scollarsi dalla carne, /una lotta fratricida tra spirito/e pelle. Un annichilimento". Bellissima proprio la sineddoche di "pelle" per corpo. Una pelle che vale vita, esistenza. Che necessita un morire e rinascere. Un attraversarsi che implica diventare "maga, strega, donna", un arrendersi "al bisbiglio del corpo".

Ma anche un perpetuare la madre. Che ha compreso. Una madre che si fa figura in grado di accompagnare il processo di cambiamento e di consapevolezza, quasi di favorirlo (Così mi diede i suoi vestiti, /le sue scarpe, i suoi rossetti;/ mi disse: «prendi, figlio mio,..)

È un tempo, questo, " in cui si può vivere bene a patto/che si vaghi in tondo, ciechi/– che si celi, proprio come Tiresia, /un mistero che non si può dire.". Un tempo ancora ipocrita e crudele, che impone il silenzio alla verità del sentire e del sentirsi. Che impone la cecità di Edipo, del Pietro di Con gli occhi chiusi, del romanzo omonimo di Saramago. Solo accettare questo, permette di vivere bene (con connotato ironico e antifrastico).

Dal punto di vista retorico, va evidenziato il significato insieme antifrastico e anadiplotico della parola "dono" al secondo e terzo verso. Anadiplosi che torna con varie combinazioni poliptotiche e paranomasie, quasi un gioco guittoniano (diventa ciò che sei/se ciò che sei non sei potuto essere). Un ripetere ed un ripetersi. Significativo l'uso del perfetto, come a segnare un fato, un destino, qualcosa di segnato (nacqui; fece, comprese, qui nella dinamica omoteleutica). Particolare il gioco in chiusura delle paranomasie (ciechi, celi) e dei poliptoti, in riferimento ai possessivi identificatori (mi, mia, mio, mi; sue, suoi, anche in funzione epabadiplotica).

David La Mantia

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La mente è sottile come un capello
sostenevi, conscia tu che l’equilibrio
dei pensieri altro non è che una danza precaria
in punta di piedi. Non c’era colpa
nelle cause che non sapevi rintracciare,
nell’involarsi degli anni via via
sempre più remoti. Un fiume, il tuo, proiettato
alla fonte in moto contrario e definitivo.

Oggi hai otto anni, domani cinque,
tra una settimana appena tre
e, se tra un mese sarai ancora viva,
bisognerà tenerti in braccio, darti
solo cibo liquido, non pretendere nulla
se non che il tuo respiro sia regolare
la notte e che non soffochi dormendo,
che l’occhio sia acquoso e pieno come quello
di un pesce, che improvvisi non giungano
dolori fitti come spine, ematomi violastri sulla pelle.
Altro non si può esigere da te,
così piccola e violenta nella tua malattia.

Ma verrà presto il giorno in cui vorrai solo
dormire di un sonno vasto come il tuo mare
che si offre scendendo al lungomare alfeo
sotto casa. Sentirai improrogabile il bisogno
di posare gli occhi sul cuscino, lasciarli
lì per qualche ora. Per allora non saprai più
la differenza tra terra e culla
e non ti importerà poi così tanto.

Dormirai aspettando che qualcuno venga
a svegliarti, allungarti fra le mani
un bicchiere d’acqua fresca per bere.

 

(da Dove non siamo stati, Rizzoli, 2020)

* 

La poesia scelta è tratta dalla seconda raccolta di Giovanna Cristina Vivinetto (Floridia-Sr- 1994), Dove non siamo stati, Rizzoli, 2020. Se nel precedente lavoro (Dolore minimo, Interlinea, 2018), la vena poetica dell’autrice rispondeva quasi esclusivamente ad una spinta personale e individuale, e si incentrava, quindi, sul desiderio irrefrenabile di raccontare in versi la propria condizione di transessuale, la seconda opera della poetessa siciliana prende il via da lì, da quel “dolore minimo”, da quella condizione voluta e sofferta insieme, per indagare poi oltre, per sondare ciò che è rimasto dopo la perdita. Per poterlo attuare, Vivinetto dirige il proprio sguardo all’esterno, dai propri cari fino al proprio paese di origine, quella Ciuriddia cui dedica l’ultima parte della silloge, quasi a volersi riappropriare di quelle origini prima abbandonate ed ora cantate nella loro assenza.

Così è la lirica di sopra, in cui la malattia della nonna viene vissuta, sofferta, accompagnata nel ricordo di quella pace risolta che forse non era ancora stata raggiunta. L’autrice instaura allora un dialogo, volgendo sempre il proprio io lirico ad un “tu” identificabile facilmente con la parente malata, ma che, forse, porta molto più in là. O torna molto più indietro, per meglio dire. Perché, se si leggono versi come

 

conscia tu che l’equilibrio
dei pensieri altro non è che una danza precaria
in punta di piedi. Non c’era colpa
nelle cause che non sapevi rintracciare

essi potrebbero anche interpretarsi come una metafora della propria condizione iniziale di vittima di un corpo non suo, vittima di qualcosa la cui causa non sapeva rintracciare. Salvo, poi, volersi imporre sull’ignota causa e decidere da sé il proprio futuro. Così interpretata, la poesia scelta potrebbe intendersi come la rappresentazione di una assenza, che, mentre in Dolore minimo era evidentemente l’assenza del proprio corpo e della propria antecedente identità, può adesso prendere il largo e abbracciare l’assenza della identità e della memoria della propria nonna malata di Alzheimer, fino a giungere, nell’ultima sezione del libro, a quella di un paese intero, la sua Ciuriddia, assenza che si fa mancanza, che si fa urgenza di essere ricordata. Ed è un rammentare per riportare in vita, scriverne per tornare ad esistere. Così come per se stessa. Così come per la nonna. Così come per Ciuriddia.  Allora è in tale senso che si deve intendere il Dove non siamo stati del titolo: un luogo dell’anima che non si era in grado di imporre, ma che, con la scrittura, è tornato ad esistere. Quanto meno nella memoria e dentro le pagine di una raccolta poetica, dove il mare, luogo archetipico di nascita e ri-nascita, sarà il sonno, sarà quello spazio-tempo infinito e al di fuori da ogni umana volontà

 

verrà presto il giorno in cui vorrai solo
dormire di un sonno vasto come il tuo mare
che si offre scendendo al lungomare alfeo
sotto casa.

 

Quanto ai richiami, vi rinvengo la migliore Dickinson sin dal primo verso, dove ad esempio La mente è sottile come un capello richiama quella fragilità e delicatezza, vulnerabilità dell’esistenza e fragilità della mente e del corpo, che spesso si ritrovano in tanta produzione della poetessa statunitense, insieme alla limpidezza del linguaggio, seppure guidato dalle numerose ed elaborate metafore. È, infatti, sapiente l’uso frequente nella Vivinetto delle figure retoriche, che si ripetono nell’intera poesia, soprattutto delle metafore, come in Un fiume, il tuo, proiettato / alla fonte in moto contrario e definitivo, a significare il tempo che scorre in avanti o, qui, anche all'indietro, o in verrà presto il giorno in cui vorrai solo / dormire di un sonno vasto come il tuo mare, dove la similitudine incontra la metafora e il mare, elemento archetipico della poesia classica e moderna, avvolge i versi come in un sonno salvifico e buono.

Melania Valenti


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Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Laureata in Lettere, vive attualmente a Roma, dove studia Filologia moderna all’università La Sapienza. “Dolore minimo” (Interlinea, 2018 – prefazione di Dacia Maraini, postfazione di Alessandro Fo), primo testo in versi in Italia ad affrontare la tematica della transessualità, è apparso e recensito su diverse testate giornalistiche, tra cui Il Fatto Quotidiano, La Repubblica, Il Libraio, La Stampa, Il Messaggero, Il manifesto, Panorama, Il Corriere della Sera, La Sicilia, Leggere Tutti e diverse altre. È la vincitrice della VII edizione del premio Cetonaverde Poesia Giovani e della 59^ edizione del premio San Domenichino Città di Massa. Del 2020 è la sua seconda silloge, Dove non siamo stati, edita da Rizzoli.


Immagine in copertina da https://www.imdb.com/it/name/nm13496910/

Commenti

  1. Una dilagante potenza si sprigiona dai versi di Cristina Vivinetto, resa ancor più esplicita e profonda dalle riflessioni dei commentatori . Una poesia dove c’è tutto, che lascia senza fiato. Nadia Chiaverini

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  2. L'ho incontrata l'altra estate, la Vivinetto. Ha presentato proprio Dolore minimo. La forza poetica dei suoi versi è tuttuno con la forza della sua persona. È il simbolo di come la parola possa diventare racconto e salvezza a un tempo, ma anche supremo mezzo di equilibrio raggiunto. Di come si possa essere poeti da sempre (ha una maturità espressiva mirabile). Grazie per le vostre letture, tutte molto belle e appropriate.

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