INNESTI - Emanuela Sica - Innesto VII: Raffaella Rossi, Antonello Sollai, Marzia Sirio
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Emanuela Sica |
Devo perdermi per mille anni
ancora
nell’esilio che mi hai dato
nel posto in cui non si vede il mare
ma il vento favorisce il decollo,
un vento che non sposta
la direzione di uno sguardo
intrappolato nel ricordo di una terra
che aveva fatto brillare i capelli con il polline
e gli occhi con il riflesso del frumento.
Raffaella Rossi
*
Va da sé che io guardi con passione
un fiore che prorompe silenzioso:
un non sognato dono con intorno il cosmo,
trovato come anello di nessuno.
Eludere non è sua vocazione.
Lui non è me,
che tento sempre di frodare il tempo.
Ma entrambi siamo
l'insana conseguenza di una sete.
L'urgenza ci possiede entrambi.
E tra me e lui non sono io
l'immune dagli amori sciagurati.
Un immutabile bisogno, però
ci accomuna: di luce lui, d'amore io.
A lui la porge il sole.
A me, l'amore, talvolta ritorna
con un treno che manco alla stazione.
Antonello Sollai
*
Ti ho fiorito
il collo nudo
esposto al nodo
ad aprirsi
tra costole il
cuore sboccato
soffocato
non so dirti ne quando
precipiti il cielo
forando la mente.
nel campo rosso
l'emorragia dei fiori
in tutte le sue forme
agghindate si prese il giorno
per farsi riconoscere.
Marzia Sirio
Innesti: tre poesie – un racconto d’anime
Lo percepisci con la stessa leggerezza del respiro notturno, che si fa più lieve, fino allo smarrimento: c’è un momento, nel cuore di ogni lontananza, in cui il sogno cade nei meandri del vissuto e il ritorno diventa utopia; è allora che cominci a parlare con l’assenza. Tre voci poetiche – Raffaella Rossi, Antonello Sollai e Marzia Sirio – sembrano “interloquir e rispondersi” senza essersi mai cercate davvero. Forse non si conoscono neppure. Forse nemmeno si sfiorano o, per assurdo, si toccano, ma s’incontrano lo stesso, in quel punto dove il dolore prende forma e si fa parola. Tre parole si legano: vento, fiore, sangue. In questo modo inizia il loro parlarsi.
Il vento dell’esilio in Raffaella Rossi
Rossi apre il cerchio del dialogo tra emisferi lontani, spaziando in una costellazione di versi che sembrano portati via da un vento senza direzione. È il movimento naturale di chi è lontano da tutto, anche da sé. La sua è una poesia che racconta l’anima deportata in una terra senza mare, senza orizzonte. Eppure qualcosa si muove, qualcosa soffia. Senza liberare…qualcosa scuote. È frusta d’aria che non cambia il destino, è un ricordo che torna e ti trattiene. Nei suoi versi abita un tempo perduto che sa di grano e di infanzia, di capelli impolverati (di polline) e occhi che brillano nonostante il destino. Questo perché si tuffa, coraggiosa, in un Eden perduto, un luogo immaginato dove il desiderio si smarrisce per mille anni – non un numero, ma una condanna dolce, mitologica quasi. Dove la memoria diventa più vera del presente, e il ritorno non serve più a niente. Il bicchiere del presente è bevuto vorace. Non una goccia resta a dissetare il domani.
Si percepisce, forte, l’insegnamento di Platone: l’anima, anche quando sembra persa, conserva in sé il ricordo di una casa lontana, una patria originaria da cui è stata strappata. Parafrasando Simone Weil diremo che ci sono luoghi che non raggiungeremo mai, eppure è da lì che sentiamo di provenire ogni volta che ci perdiamo.
Il fiore del tempo in Antonello Sollai
Sollai risponde con una poesia che sembra stare in equilibrio tra la solitudine e il tempo. Al centro c’è un fiore – fragile, improvviso – che nasce senza essere stato sognato. È lì, semplicemente, e per questo è miracoloso. Lui lo guarda con meraviglia, quasi con invidia. Perché il fiore non ha paura, non mente, non aspetta. Vive. Punto. In quell’attimo avviene una metempsicosi: Sollai trasmigra e si riconosce in lui, ha sete. Ma mentre il fiore cerca il sole, lui rincorre l’amore. Ma se il sole arriva ogni giorno, l’amore non ha la stessa frequenza ciclica. In quell’attesa si ripete, qualcosa dentro si scompone, una domanda senza risposta. La sua è una poesia che sa di verità nuda: l’amore come grazia e come fatica, come dono che ha un contraltare, porta dolore, come un treno in ritardo che, quando tarda troppo, ti fa dimenticare il viaggio e quindi…chi sei. Limitarne l’attesa è una lotta impari con le mani delle tessitrici che impongono la clessidra con scientifica diligenza o forse catastrofica arroganza? Era Heidegger che vedeva l’uomo come di un essere che abita il tempo, ma raramente vi dimora davvero. Eppure da quel tempo che ci scivola tra le mani ogni tanto si apre uno spiraglio, è allora che intravediamo qualcosa che somiglia all’eterno.
L’emorragia dei fiori in Marzia Sirio
Sirio declina la chiusura, senza filtri. La sua poesia entra diretta. È una lama sotto pelle. Non spiega, non introduce: apre con precisione i lembi. “Ti ho fiorito il collo nudo” – e subito si capisce che fiorire, qui, non è solo bellezza. È anche ferita. È mettersi a nudo, mostrare la gola indifesa, offrire un tesoro senza riscatto: il cuore. Quando “precipita il cielo forando la mente”, la realtà smette di essere fuori e inizia a franare dentro. Il campo rosso non è un’immagine: è un’emorragia. Fiori, sangue, desideri caduti. Tutto si confonde. Forse è amore, forse è morte. Forse entrambe le cose insieme. La sua è una poesia-cicatrice, che pulsa, che chiede di essere vista. Non chiede scuse, non cerca consolazione. Solo uno sguardo che non si dilegui in una fuga. Nietzsche ci ha insegnato che dal dolore nasce la verità più autentica, e quindi solo chi ha attraversato il proprio caos può dare forma a qualcosa che davvero brilla.
Infine l’Epilogo: inizia la sete, segue il vuoto, infine il ritorno
Tre poesie, in tre voci, esprimono tre modi diversi di cercare lo stesso baricentro: essere visti (dalla madre terra perduta, dal tempo che scivola via, o da un amore che ci segna nel corpo). In ogni verso aleggia una mancanza, si rigira nell’incavo di un’assenza. Eppure è proprio quella mancanza a unire queste voci più della presenza, muovendosi tra nostalgia, desiderio e trauma, rincorrendo un'idea di eternità che però non si lascia afferrare: è un’illuminazione che dura un attimo, un lampo che non si può afferrare o trattenere.
Così nell’epilogo chi legge non rimane fuori. È dentro questo dialogo tra “esseri umani” che si sfiorano senza dare modo al corpo di toccarsi. E proprio lì, in quel punto dove la bellezza diventa dolore, non puoi più chiamarla solo poesia. Forse è qualcosa di più: è vita, è realtà, verità che vuole essere declinata nelle ore del tempo che rincorrono (inutilmente) l’eternità. Sant’Agostino diceva che il cuore dell’uomo è inquieto finché non trova riposo. Ma qui non c’è riposo, e forse non c’è nemmeno un arrivo. Solo una sete che si rinnova.
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