IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino – Labor omnia vincit
Labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
La fatica, smisurata, fu vittoriosa su tutto,
e gli stenti che incalzano nella durezza della vita.
(Publio Virgilio Marone, Georgica, I, vv. 145 -146, trad. A. Barchiesi)
Era
il 37 a. C. forse - o poco più tardi - quando Virgilio, con queste poche
parole, inaugurava quel profondo ripensamento del lavoro dell’uomo che la
critica letteraria è solita definire come “teodicea del lavoro”, ossia individuazione
d’un atto di suprema giustizia divina, mediante il quale agli uomini fu concesso
di lavorare, di migliorarsi, di aspirare a condizioni di vita e di intelletto
superiori. Il termine “teodicea”, derivante da ϑεός
«dio» e δίκη «giustizia», è tuttavia di molto posteriore al
grande poeta latino; a introdurlo fu infatti Leibniz nel suo Essai
de théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la
libertà dell’uomo e l’origine del male), risalente al 1710. La
definizione voleva rappresentare una filosofica «giustificazione di Dio»
rispetto al problema della persistenza del male nel mondo e al concetto di libero
arbitrio. Applicata, pur anacronisticamente, alle Georgiche virgiliane, essa va intesa come tentativo di inglobare
l’idea di labor in una prospettiva
etica più ampia, non più di mera e necessaria sussistenza. Il labor,
lungi dall’essere disgrazia, viene ora ritenuto grazia - elargita dal
divino all’umano - di ricreare il mondo coi mille talenti avuti in dono. Un percorso
irto di ostacoli e di ortiche, denso di intemperie e di disastri naturali, che in
continuazione minacciano di vanificare i frutti d’ogni umana applicazione. Tuttavia,
è proprio in questo rischio che risiede il discrimine tra il tempo dell’uomo e
la cosiddetta età dell’oro, in questo precipitare d’altezze che ridusse la dimensione
edenica in uno spazio terreno e accidentato.
Nel pensiero classico questa frattura coincideva col trapasso dal regno di Crono a quello di Zeus e il primo a tracciarne i confini era stato il greco Esiodo ne Le opere e i giorni, opera in cui, per la prima volta, si trova narrato il mito delle cinque età dell’uomo: all’età dell’oro, in tutto coincidente con l’Eden o paradiso perduto dell’immaginario cristiano, sarebbero seguite - secondo una prospettiva di abbrutimento progressivo - quelle d’argento, di bronzo, degli eroi e - da ultima - quella del ferro, individuata come contemporanea.
Già per Esiodo, insomma, era stato Zeus-Giove a
decidere, con atto imperioso e coraggioso assieme, di sottrarre all’uomo i mezzi spontanei di sostentamento, di costringerlo alla fatica
per procurarsi il necessario alla sopravvivenza. Ora, se Virgilio
concorda col suo illustre predecessore in merito a questo sviluppo cronologico
degli eventi, al contempo se ne distacca nell'individuazione della
causa profonda di tale decisione: non più l'ira divina che aveva mosso Zeus contro
il Prometeo ingannatore, ma un giudizio etico negativo sulle condizioni
di vita d’una intera generazione:
«...Pater ipse colendi
haud
facilem viam voluit, primusque per artem
movit
agros, curis acuens mortalia corda
nec
torpere gravi passus sua regna veterno.»
«...Il padre Giove in persona
decise che non fosse facile la
via del coltivare, e per primo
fece sì che i campi fossero
arati, affinando i cuori dei mortali con gli affanni
e non sopportando che il suo
regno giacesse inerte in un pesante letargo».
(Ivi, vv. 121-124)
Rendendo necessario il lavoro dei campi, Zeus-Giove volle riscattare l'umanità da quella condizione di patologica inerzia che era connaturata all’età dell’oro, da quel letargo spirituale (gravis veternus) in cui essa viveva beata e inoperosa.
Perché
il lavoro, coi suoi affanni, acuisce l'ingegno dell'uomo, diventa opportunità
di maturazione intellettuale, rappresenta una spinta costante alla scoperta rivoluzionaria.
Nella visione virgiliana è quindi implicita una condanna etica dell’umanità
aurea, atteggiamento che peraltro trovava riscontro nell’ambiguità di vari
filosofi antichi.
Infatti,
se dinnanzi alla crisi della polis i sofisti, ad esempio, vagheggiavano
un indistinto ritorno alla dimensione edenica originaria, Platone, invece,
si chiedeva se quel modello esistenziale fosse desiderabile davvero, tanto che
nel Politico (272 b-d) arrivava ad avanzare seri dubbi sull’effettiva
felicità di quegli uomini, che vivevano appagando solo gli istinti primordiali
della loro anima ed erano condannati a permanere in uno stadio intellettuale
inferiore.
Parimenti
anche l’alessandrino Arato di Soli nei suoi Phaenomena, che resta
una delle principali fonti del genere didascalico latino, definiva Zeus-Giove
un padre che «nella sua benevolenza verso
gli uomini… spinge i popoli al lavoro» [Arato, Phaenomena, vv. 1-18].
Quindi, l'aspetto più notevole nella teodicea virgiliana resta la compresenza di due differenti modelli interpretativi della storia umana: da un lato il mito esiodeo che traccia - in una prospettiva quasi antiprovvidenzialistica - un inesorabile processo di decadenza dalla condizione “aurea” primordiale all’età contemporanea, dall’altro la concezione atea e materialistica (in cui è forte l’influsso lucreziano) che rappresenta la storia dell'uomo come un’ascesa lenta ma continua verso la civilizzazione.
E
mentre nel primo modello è sottinteso un atteggiamento passivo-ricettivo da
parte umanità, nel secondo emerge, piuttosto, una fiducia fattiva nella sua capacità
di dare vita a un mondo migliore.
Proprio
da quest’ultimo deriva la valutazione duplice e contraddittoria del lavoro, che
è condizione necessaria alla promozione umana, ma anche metaforica guerra
contro una natura inospitale.
Il lavoro punta
al miglioramento complessivo degli umani: educa a evitare gli inganni, la superbia, la violenza; insegna loro a vivere onestamente
rispettando quanto li circonda; conferisce un senso alla vita, nella misura in
cui li sprona al miglioramento di sé stessi e della propria specie. Un’idea
nel complesso assai innovativa per il mondo antico, dove l’uomo libero di norma
non aveva motivo di lavorare, visto che poteva contare su un modello produttivo
servile. In ambito greco, Platone e Aristotele considerarono le attività manuali
appannaggio di istinti brutali e ritennero che l’uomo libero, nei periodi di
inattività politico-militare, dovesse dedicarsi alla ginnastica, alla
filosofia, alla speculazione.
Parimenti, i
Romani distinsero tra otium e labor, elogiando
il primo in quanto uso libero e volontario del proprio agire e ritenendo il
secondo sinonimo di pena, angoscia, fatica. Questo, almeno, fino a Virgilio.
Ma quella di Virgilio è un’età particolare, un’epoca che si porta sulle spalle il peso di decenni di lotte fratricide, un’epoca in cui è di palingenesi che si vuole parlare e con essa di speranza, di rigenerazione. Proprio come le api (tanto presenti nelle Georgiche virgiliane), col loro incessante lavoro, collaborano tutte alla creazione di una società pacifica ed equilibrata così anche gli uomini possono e devono uscire da una prospettiva utilitaristica e limitata, operare in concordia per creare una società più armoniosa ed equa. D’altronde labor vuol dire anche caduta, inganno, dolore. Se il nostro fine è vivere, per vivere bene è necessario cadere, ingannarsi, soffrire ma anche resistere a tali inciampi, rialzarsi, reagire, contando sulle proprie umanissime capacità di redenzione.
Con «labor omnia vicit» forse Virgilio voleva dirci che nella vita si può rinunciare o, al contrario, ci si può rimboccare le maniche e ricostruire.
Tuttavia, perché ciò avvenga, bisogna lavorare con passione. D’altro canto il termine passione non deriva forse da passus, che è participio passato del verbo pati (patire, soffrire)? Il patire
determina un acuirsi del nostro sentire e permette di dare un senso profondo al
nostro operare. Nessun uomo può essere schiavo del suo
lavoro se lo concepisce come una passione a cui è affidata la sua, e assieme
l’altrui, realizzazione. La libertà - come diceva qualcuno - non è forse
“partecipazione” a un progetto di progresso comune? E allora dovremmo chiederci
se oggi del lavoro siamo riusciti a fare questo, una teodicea di cui
approfittare per rendere migliore la dimensione sociale.
Marco ha ventisette
anni e una laurea in Economics and Management, conseguita in lingua
inglese. Il master non ha potuto permetterselo, la sua famiglia non era
più in grado di sostenere altre spese. Da quando s’è laureato - mi racconta -
non c’è giorno in cui non invii il suo curriculum a un’azienda diversa,
sperando che l’algoritmo dell’IA lo grazi e scelga proprio il suo (“Le
selezioni oggi le fanno così, non lo sapevi?” - aggiunge. E no, giuro che
non lo sapevo). Sì certo, col tempo, l’entusiasmo iniziale è scemato pure: ai
giovani come lui si riservano, quando va bene, solo contratti da stagista,
provvisori.
Ottocento
euro al mese, e se vivi coi tuoi in qualche paesino del Sud potresti anche
riuscire a sostenere le spese mensili, ma andare a vivere da soli in una grande
città è fuori discussione. Eppure è proprio lì che, per paradosso, ti si offrirebbe
qualche discreta e “futuribile” occasione. Amaro, sorride.
Giorgio ha
cinquant’anni e negli anni del covid la piccola azienda di ceramiche per
cui lavorava ha chiuso. S’è dovuto reiventare - mi dice -, una parola che oggi
va tanto di moda, una parola che fa quasi figo. Ora lavora per Glovo e
come un ventenne mancato schizza qua e là tutto il giorno col suo scooter. La
chiamano “gig-economy” – s’è pure informato -, un termine anglosassone
(anch’esso figo!): gig vuol dire “lavoro temporaneo”, economy semplicemente
“economia”. “Economia temporanea” insomma, e sì certo - concordiamo assieme -
la traduzione italiana lancia molte meno suggestioni.
Margherita ha trentasette
anni e due bambine, di tre e di cinque, sì ancora piccoline. Prima lavorava come
psicologa con un contratto Co.co.co. presso un ente locale, poi con la nascita
della prima figlia ha dovuto lasciare stare, perché il contratto per la
maternità - e pure per la malattia! - non prevedeva tutele, solo giorni di
ferie. Ora che le bambine sono più grandicelle vorrebbe quasi quasi rientrare,
ma l’asilo non ha il tempo prolungato e pagare una baby-sitter resta
fuori portata, e fuori discussione.
Gianna è una
precaria della scuola, ha quarant’anni e ha già superato due preselezioni per
il concorso a cattedra; no, il concorso poi non è riuscita a vincerlo sul
serio. D’altronde come si fa? Solo cinque posti in tutta la sua regione, un
gioco al massacro! Così, intanto, ha deciso di fare il TFA, tremila euro...
senza contare le spese vive per i viaggi e i soggiorni per seguire le lezioni.
“Tu che sei di ruolo” - mi chiede, a un certo punto – “che ne pensi?
Ne varrà davvero la pena?”. Taccio e m’accordo al suo silenzio.
Intanto anche quest’anno il primo maggio è passato senza sussulti, tra i barbecue casalinghi e le consuete rituali celebrazioni. D’altronde la ricorrenza è sufficientemente moderna acché non se ne perda memoria, ancora. Originaria degli Stati Uniti, è legata alle lotte sindacali che qui si svolsero per ottenere il diritto a una giornata lavorativa di massimo otto ore, all’epoca infatti era normale lavorare dalle dodici alle quattordici, spesso con salari miserabili e in condizioni disumane. Nel 1886, i sindacati statunitensi indissero allora un grande sciopero generale. Il culmine delle proteste fu raggiunto proprio il primo maggio, data prescelta per scatenare un’ondata di manifestazioni che coinvolgesse tutto il paese. Ma il 4 maggio, a Chicago, durante una protesta in piazza Haymarket, una bomba esplose tra la folla, morirono agenti e civili e fu subito avviata un’intensa attività di repressione: arresti arbitrari, processi sommari e impiccagioni segnarono per sempre quella storia.
Qualche anno più tardi, a Parigi, nel
1889, il Congresso della Seconda Internazionale decise
che il primo maggio sarebbe
diventato il giorno dedicato ai lavoratori, in memoria dei Martiri di Chicago e
come simbolo della lotta congiunta per migliorare le condizioni di lavoro. A
partire dal 1890, molti paesi europei, tra cui l’Italia,
iniziarono a celebrarlo con cortei e manifestazioni. E oggi - a fronte delle sempre più ampie
forbici sociali che s’aprono dinnanzi ai nostri occhi, delle sperequazioni
palpabili tra condizioni di diritto e realtà di fatto, dell’inarrestabile
progresso delle logiche del mercato a dispetto di quelle del rispetto - è forse
giusto stare ancora qui a chiedersi cosa sia il lavoro adesso, se realmente s’avvicini
all’idea di palingenesi a cui lo volle accostare Virgilio o se abbia
subito piuttosto una brusca regressione, un ritorno alla sua radice di senso
originaria, che lo voleva fratello della fatica e del dolore, obolo da versare
alla logica umana della sopraffazione.
Riferimenti
bibliografici essenziali
Virgilio,
Georgiche, traduzione e note a cura
di Alessandro Barchiesi, Mondadori, 1980
Arato
di Soli, Fenomeni, a cura di Valeria
Gigante Lanzara, Garzanti, 2018
Siti:
Le
interviste, riportate con degli pseudonimi, sono storie vere e riguardano miei
contatti quotidiani.
Immagini:
Peter
Paul Rubens (1577-1640), Deucalione e
Pirra
Il 4
maggio 1886 a Chicago, riproduzione grafica di originale (dal web)
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