FRAGMENTA - Deborah Prestileo - La ginestra nata sulla pietra lavica. Il sintagma leopardiano nei Baustelle

 

Deborah Prestileo

Certe notti da nevrastenia / da soffocare / apro la finestra e volo via / si fa per dire / come la ginestra nata sulla pietra lavica / mi vedo lottare come mosca nel bicchiere / eppure, Dio / lo lascio fare”. Così cantano i Baustelle in La morte (non esiste più), traccia tratta dall’album Fantasma (2013). Qui, tra i muri soffocanti dell’esistenza e in un desiderio mai compiuto di fuga, appare lei, la ginestra nata sulla pietra lavica. Un sintagma, questo, che irrompe nel testo con una violenza inauditamente gentile. Perché la ginestra non è un fiore qualsiasi. È il fiore solitario che osa fiorire sulle pendici infuocate del Vesuvio, la figlia non del giardino ma del deserto, la madre di ogni esistenza lieve ma non evanescente. La connessione tra i due testi non è arbitraria: è verticale, profonda, naturale. In altre parole, il verso dei Baustelle è erede di una filosofia dell’esistenza tutta leopardiana: la vita che osa ancora germogliare sul margine del nulla.

Nel canto di Leopardi, la ginestra cresce in un paesaggio apocalittico. Rimane umile, schiva, non cerca ammirazione. Esiste in silenzio, è consapevole del proprio limite e non sfida le leggi naturali, anzi ne riconosce la potenza. La natura domina con indifferenza e l’uomo, fragile e precario, non può opporsi alla sua potenza distruttrice. Eppure, in questa consapevolezza tragica, il fiore si riconosce come parte del tutto, unico baluardo contro l’indifferenza cosmica. Perché non si illude di piegare il vulcano o di vincere il deserto. La sua forza sta nella coscienza del limite, nella rinuncia all’orgoglio individuale, nella condivisione della stessa sorte con gli altri esseri umani. L’unico gesto possibile, che nasce da una necessità brutalmente esistenziale, è quello di una viscerale solidarietà tra gli uomini. Perché al cospetto della natura siamo tutti uguali. Finiti, limitati, senza via di fuga.  

Il fiore dei Baustelle rinnova questo sintagma: la pietra lavica non è più solo il suolo vulcanico delle pendici napoletane, ma una più estesa metonimia della contemporaneità, di un mondo devastato e incandescente dove tutto si plasma di continuo e persino l’identità è nevrastenica. I Baustelle non consolano. Come Leopardi, non offrono salvezze facili, non promettono risposte. Nella loro canzone, non a caso, “eppure Dio / lo lascio fare”. Questo passaggio suggerisce una resa consapevole all’impossibilità di controllare ogni dimensione dell’esistenza. I passeri che sopravvivono senza cibo, le notti di nevrastenia, la lotta interiore simile a una mosca intrappolata in un bicchiere. Questo atteggiamento è profondamente leopardiano: non implica passività, ma una forma di accettazione attiva, una scelta di fiducia nella vita nonostante la sofferenza. “Lasciare fare a Dio”, allora, suggella benissimo l’invito a farsi ginestra, ovvero a riconoscere i propri limiti e a trovare serenità nell’accettazione anziché nella resistenza. Persino della morte – già dal titolo: La morte (non esiste più) –.  Che non viene negata come fine biologica, ma svuotata del suo potere assoluto e privata del suo dominio emotivo. È l’amore, allora, l’unica via d’uscita per un’umanità in cerca di senso. Persino di redenzione.

Tanto in Leopardi tanto nei Baustelle, la ginestra è la condizione di chi si ostina a vivere con grazia quando tutto attorno implode. È la creatura che non si lascia travolgere dal cinismo o dalla menzogna, ma si aggrappa a qualcosa di più veementemente lieve: il gesto, piccolo e intimo, di esistere nella distruzione. Pur lontani nel tempo e nello spazio, entrambi condividono una visione radicalmente antiromantica della condizione umana. Nessun mito del progresso, nessuna illusione provvidenziale. Solo la coscienza, lucida e spietata, di un mondo che forse non ci vuole.

 

Ma possiamo essere noi a compiere la scelta di volere lui. Perché fiorire anche da distrutti, cantare mentre tutto tace, si può e si deve.

 


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