FLUSSI E VISIONI - Zeudi Zacconi - Il compimento della promessa

 



Come la freccia

scoccata dall’arco s’impianta

la vita – nell’abisso del tempo.

Tu non distrarti

oltre il bersaglio una fede

incomprensibile acceca la presa.

Guarda

come si compie davanti

al tuo volto la trama

della promessa.[1]

 

 

***

 

C’è qualcosa, che da sempre accende o estingue la vita umana, la innalza conducendola per luoghi segreti, generando esperienze di senso la cui eco incontriamo nelle arti e nella poesia. C’è qualcosa, che sottende e che trascende questo vivere sul ciglio della terra, sul margine del sentiero. Qualcosa, che dietro l’architettura del tempo scaglia la freccia della venuta, scrigno di un patto di realizzazione totale in un campo di spine. In questa “valle di lacrime”. Portarsi a compimento è un atto di fiducia nell’ignoto, un gesto d’abbandono al divenire, un piano di ricominciamento che implica il disordine del pensiero. Che contempla il ribaltamento della parola e la sua resurrezione. Disinnescare l’origine persecutoria rivisitandone gli snodi che hanno contaminato l’interno, usurpato il nostro intimo. Sì, perché la relazione iniziale, primaria, dell’uomo con il senso del Tutto non avviene nella ragione ma nel delirio – un delirio di persecuzione – finché la ragione non tenterà di incanalare il delirio in amore.

E così l’uomo, da sempre, entra ed esce da sé, è in lotta perenne tra il vuoto che lo dimora e il pieno che lo circonda. Non è infatti la realtà ciò che gli manca, è la visione. La sua necessità è di vedere. E che quella realtà irregolare e piena prenda forma e si delinei in una entità, che il continuo si manifesti in immagini separate, identificabili.   

Per inseguire e amare ciò che lo perseguita la prima cosa di cui ha bisogno è identificarlo. Dargli un nome.

 

 

Vista con granello di sabbia

 

Lo chiamiamo granello di sabbia.

Ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia.

Fa a meno di nome

generale, individuale,

instabile, stabile,

scorretto o corretto.

 

Del nostro sguardo e tocco non gli importa.

Non si sente guardato e toccato.

E che sia caduto sul davanzale

È solo un’avventura nostra, non sua.

Per lui è come cadere su una cosa qualunque,

senza la certezza di essere già caduto

o di cadere ancora.

 

Dalla finestra c’è una bella vista sul lago,

ma quella vista, lei, non si vede.

Senza colore e senza forma,

senza voce, senza odore e dolore

è il suo stare in questo mondo.

 

Senza fondo è lo stare del fondo del lago

E senza sponde quello delle sponde.

Né bagnato né asciutto quello della sua acqua.

Né al singolare né al plurale quello delle onde,

che mormorano sorde al proprio mormorio

intorno a pietre non piccole, non grandi.

 

E tutto ciò sotto un cielo per natura senza cielo,

ove il sole tramonta senza tramontare affatto

e si nasconde senza nascondersi dietro una nuvola ignara.

 

Il vento la scompiglia senza altri motivi

se non quello di soffiare.

 

Passa un secondo.

Un altro secondo.

Un terzo secondo.

Tre secondi, però, solo nostri.

 

Il tempo passò come un messo con una notizia urgente.

 

Ma è solo un paragone nostro.

Inventato il personaggio, insinuata la fretta,

 

e la notizia inumana.[2]



Ma l’oggetto indagato, se nominato, si fa toccare? Si fa davvero più vicino, conoscibile, oppure mantiene la sua inviolabile inaccessibilità? C’è davvero una notizia per noi? Compirà l’uomo, mediante la grazia del sacro nome, il capovolgimento della divorazione?

 

“E quando definirà gli dèi in maniera poetica, crederà di trascrivere ciò che è stato e sempre si è mostrato così. Avrà allora portato a termine il delirio di persecuzione; avrà finalmente realizzato il patto.”

Dunque, se in principio era il delirio, il delirio visionario del caos e della cieca notte, il divino diventa allora una forma di accordo con la realtà – capace di placare il terrore primitivo, elementare – della quale l’uomo si sente prigioniero quando si sente diverso, in una posizione impari. Questa prima forma di rapporto con la realtà doveva realizzarsi in un’immagine, e la prima immagine che l’uomo è capace di formarsi è un’immagine sacra, che riapparirà poi sempre nel delirio dell’amore. Potremmo parlare allora di sacralità del delirio – o di delirante sacro – nell’uscita da sé alla ricerca di un nesso con l’immagine che riporta al dentro.

La forma primaria in cui la realtà si presenta all’uomo è quella di un completo nascondimento, un nascondimento radicale; in quanto la prima realtà che si nasconde all’uomo è l’uomo stesso. Così questo essere nascosto aspira a uscire da sé e ne ha paura, proietta lo sguardo oltre se stesso, ma non potendo guardarsi si guarda attraverso quello che lo circonda: gli alberi, le pietre, i fiumi. E soprattutto ciò che sovrasta il suo capo: il firmamento e le sue ospiti splendenti.

Tutto testimonia che la vita umana si è sempre sentita dinanzi a qualcosa, e si è sempre data a questo qualcosa nelle due situazioni che corrispondono alle due manifestazioni del sacro: il terrore e la grazia, questa doppia persecuzione.

L’esistenza del sacro significa la possibilità della domanda. E la domanda diretta al divino – rivelata o disvelata poeticamente – è l’angosciosa domanda sulla stessa vita umana. L’atteggiamento rivoluzionario del domandare presuppone, in origine, l’apparizione della coscienza: questo strappo dell’anima. Questa rottura che ha dato luogo alla nostalgia di un “paradiso perduto” da cui sentiamo di provenire, seppure storicamente mai esistito. Questo preludio alla vita. Questo tempo prima del tempo. Questo ante-mondo. Questa pre-verità. L’istante – perduto nell’oblio del tempo – un tempo in cui il tempo si è annullato, in cui si è annullato il suo trascorrere, il suo passo che possiamo misurare solo esternamente e quando è già svanito, attraverso la sua assenza. E nell’istante è anche l’apparizione del divino, che ha a che fare con gli attimi di felicità che si affacciano nella vita umana. Qualcosa che colmava con la sua presenza la totalità della nostra anima e che poi è scomparso bruscamente senza consumare quasi nulla, se non l’attimo della sua mancanza. Ma lasciando indizi luminosi, segnali lungo il cammino di qualcosa che ci precede. Di qualcosa che ancora succede intorno a noi – e dentro. E che ha un peso: il peso della luce.

Quale allora il compito dell’uomo? Forse leggere il segno? Percepire le tracce dell’ignoto e ammirarne la trama che si compie attraverso il suo vivere? Entrare in relazione con il mistero del cosmo – forse – tentare di nominarlo?

Così lo scrittore desidera nominare il segreto del mondo, che non può dirsi ad alta voce tanto è grande la carica di verità che lo contiene. La verità di ciò che accade nel seno segreto del tempo è il silenzio delle vite, e non può dirsi. […] Ma è ciò che non può essere detto a dover essere scritto. Il segreto si mostra allo scrittore ma non è per lui comprensibile, egli lo lancia fuori di sé come un ordigno – l’ordigno della parola pronunciata, il segreto scoperto – ma non ne conosce gli effetti, non può dominarlo. Si tratta dunque di un atto di fede a cui è chiamato, di un patto di lealtà: più di ogni altra cosa, essere fedeli a ciò che domanda di apparire dal silenzio. In questo senso la scrittura è un’opera di estrazione: “Estrarre qualcosa da sé […] con fiducia rende trasparente la verità”. E la poesia è il segreto parlante.

 

“Il vero evento deve essere cercato nello scrivere […] E credo che accada […] negli abissi del tempo. Il tempo è l’orizzonte che presenta la morte perdendosi in essa. Ciò vuol dire che per i mortali consapevoli la morte cessa di giacere nel fondo e se ne va più in là, oltre l’oceano del tempo, alla maniera di un fiore inimmaginabile che si schiude nel suo calice. E il calice del tempo offre inesorabile il presente. Sempre è ora. E se non è ora non è mai. E lo scrivere può avere il carattere di un’azione trascendentale, che non possiamo chiamare sacra soltanto perché si tratta di azione umanissima. Tuttavia possiede qualcosa del rito, dell’invocazione e, ancor più, dell’offerta, dell’accettazione dell’ineluttabile presente temporale, e del transitare nel tempo, dell’andargli incontro, come fa lui, che non ci abbandona. E siccome alla fine il tempo si muove, fa muovere l’essere umano; muoversi significa semplicemente fare qualcosa, fare qualcosa di vero. Realizzare una verità, sia pur scrivendo.”

María Zambrano, 1973

 

Ma c’è qualcosa che non si lascia afferrare, una distanza incolmabile a protezione della solitudine umana, perché possiamo sempre restare nel viaggio, sempre accesi nella domanda, affacciati alla soglia a scrutare, ad attendere la “notizia urgente”. E allora scrivere, per rispondere alla disfatta, per difendere la solitudine in cui navighiamo, ma verso rotte inimmaginabili.

La solitudine, che ancora non sa di essere solitudine, e che a stento si sente, perché corrisponde a quell’istante in cui qualcosa è appena andato via e ci si trova davanti all’enigma della realtà. Da qui l’interrogarsi dell’uomo, il segno del fatto che è arrivato un momento in cui inizia a separarsi da ciò che lo circonda, qualcosa di simile alla rottura di un amore, alla perdita di un’intimità, alla nascita.

“La filosofia affronta l’enigma nella maniera più antipoetica, a partire da una domanda, mentre la poesia inizierà sempre da una risposta ad una domanda non formulata.”

Le immagini poetiche sono dunque la soluzione trovata per la necessità del distacco, dell’uscita verso uno spazio libero, verso una relativa solitudine dell’uomo dinanzi all’enigma. E dinanzi all’enigma il poeta trema, tace e parla.

“Filosofico è il domandare e poetica è la scoperta. Non è forse poetica, sempre, la scoperta?”

Vincere mediante la visione poetica l’oscura resistenza del sacro. E cogliere, penetrando in questa oscurità, la pura essenza che – essendo – fa essere ogni cosa.



Sospesi

nella domanda abissale

come cacciatori di indizi in questa

illusione di tempo.[3]

 

 

***

 

Ed è così che chi ha fiducia nel compimento della promessa non teme l’oblio, l’abbandono mortale: perché nel non sapere sa, nell’inconoscibile conosce, nella disappartenenza sa di appartenere. Ed è così che si realizza il patto.

Ed è così che lo scrittore cerca la gloria, la gloria della riconciliazione attraverso le parole.




Riferimenti

- Davide Rondoni, Cos’è la natura? Chiedetelo ai poeti, Fazi Editore, Roma 2021

- María Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro Roma, 2001 (trad. di Giovanni Ferraro)

- María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, 1996 (trad di E. Nobili)



[1] Zeudi Zacconi, inediti

[2]  Wislawa SzymborskaLa gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009 (trad. di P. Marchesani)

[3] Zeudi Zacconi, inediti


 


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