FILI D’ERBA - Viola Bruno - “Io è un altro”

 

Viola Bruno

C’è un uomo che cade sulla Terra.

Non conosce le regole che qui valgono, né riesce a piegarsi alla logica del tempo in cui precipita.
Il suo sguardo è troppo limpido, le sue mani troppo leggere, le sue parole troppo nuove.
Thomas Jerome Newton[1] (David Bowie) non è soltanto un alieno in celluloide: è l'emblema di tutti coloro che, cadendo anzitempo nel mondo, non trovano appiglio, non trovano ascolto.

Esistono uomini e donne che hanno visto prima degli altri, che hanno intuito correnti sotterranee, mutamenti invisibili, canzoni ancora senza orecchi, quadri senza pareti, poesie senza voce.

Artisti, poeti, musicisti, filosofi, sognatori: stranieri in patria, esiliati nel proprio secolo.

Non sono eroi, né martiri. Sono semi. Alcuni sono rimasti a marcire nella terra inospitale.
Altri hanno germogliato quando nessuno più ricordava chi li avesse gettati.

E questo è il loro viaggio.


David Bowie nel film L’Uomo Che cadde Sulla Terra, 1976

All’inizio degli anni Settanta, una musica sottile come un filo di nebbia aleggiava senza trovare orecchie disposte ad ascoltarla: Nick Drake suonava chitarre che sembravano parlare da sole, mormorava parole piene di malinconia senza mai alzare la voce.

Nessuno seppe davvero dove collocarlo: troppo fragile per il folk, troppo introverso per il rock, troppo lieve per il mercato (forse sovraccarico di grandezza, in quel periodo).

“La fama altro non è che un albero da frutto / Così profondamente instabile”, cantava in Fruit Tree (https://youtu.be/lBBeyHk8Gmw?feature=shared),

già sapendo — forse — che il suo tempo non sarebbe stato il suo tempo.

La sua voce, trasparente e schiva come una mattina d'autunno, passò inosservata tra gli strepiti di un'epoca che cercava eroi gridati, non sussurrati.

La sua musica fu una bottiglia nell'oceano: gettata in un mare troppo impetuoso per accorgersi di un messaggio scritto in inchiostro d’acqua.

Solo molto più tardi, come semi notturni che sbocciano sotto altre lune, i suoi dischi iniziarono a essere riconosciuti per ciò che erano: piccoli miracoli di malinconia lucente, profezie cantate a occhi bassi.

E come accade con i pittori che dipingono la luce troppo prima che altri la comprendano, così anche Nick Drake si spense senza sapere che un giorno sarebbe diventato una stella, di quelle che non si vedono finché non si spegne il sole.


Perché la luce, talvolta, non consola. C’è una luce che trafigge, che scompone le forme, che dissolve i contorni invece di affermarli.

El Greco dipingeva così: come chi vede già la rovina dentro la bellezza, come chi intravede un’altra realtà sotto la pelle del visibile.

La sua pittura non era solo spirituale: era profetica, carica di una tensione visionaria che scavalcava il suo tempo. Il suo pennello allungava i corpi oltre ogni misura terrena, torceva le mani in gesti che nessun osservatore sapiente seppe spiegare, ogni volto trasfigurato, ogni cielo infuocato raccontava la vertigine dell’invisibile che preme sul mondo.

Nato a Creta nel 1541, maturato a Venezia, rifiutato da Roma, accolto ma mai compreso in Spagna, Domínikos Theotokópoulos fu un esiliato perpetuo.

"Strano, spettrale, come se venisse da un'altra dimensione", dicevano di lui i suoi contemporanei, incapaci di trovare un linguaggio per nominarlo.

Ma El Greco non dipingeva per la sua epoca. Nei suoi santi estatici, nei suoi cavalieri diafani, nelle sue città sospese, si cela un’anticipazione dell’espressionismo, una febbre interiore resa forma, l'eco di una visione troppo acuta per essere assorbita in quel tempo.

El Greco, Il Velo di Santa Veronica, 1580-1582

Ci sono occhi che vedono troppo, e troppo presto. Occhi che catturano nella loro retina forme ancora incerte, colori non ancora nominati, abissi che la società non vuole — o non può — riconoscere.

Vincent Van Gogh dipingeva come chi ascolta un vento che gli altri non avvertono.
Stratificava pennellate impazienti, accendeva il cielo di vortici, tendeva i campi come corde pronte a spezzarsi. La sua pittura, che oggi sembra naturale come il respiro, allora appariva inquieta, disturbante, persino malata.

Nella sua solitudine feroce, Van Gogh scrisse al fratello Théo, l’unico presente al “focolare” della sua esistenza: "Sono nel cuore delle cose, ma gli altri non lo sanno, e io non posso spiegarglielo.

 Vivere "nel cuore delle cose" è forse la condanna di chi cade anzitempo sulla terra.

I suoi dipinti non erano descrizioni del reale, ma visioni interiori. Non imitava la natura: la assorbiva e la restituiva trasfigurata, pulsante, febbrile. Non dipingeva oggetti, ma la tensione tra questi e l’invisibile che li avvolge. “I sogni a volte sono più reali della realtà” scrisse in un'altra lettera. E nei suoi sogni, intrisi di dolore e speranza, ha lasciato un atlante dell’emozione umana prima che qualcuno sapesse leggerlo.

Antonin Artaud, nel suo saggio Van Gogh. Il suicidato della società (1947), rovescia la narrazione tradizionale della follia del pittore. Per Artaud, Van Gogh non si suicidò per un delirio personale, ma è stato "suicidato" da una società incapace di accogliere la sua lucidità visionaria, “come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno”.

Artaud vede in Van Gogh un veggente che ha osato dire verità insopportabili, un artista che ha incarnato nella pittura la febbre dell’esistenza. La sua è una denuncia contro un’intera società che punisce chi osa vedere troppo. In questa lettura, Van Gogh diventa il simbolo di tutti coloro che, come Artaud stesso, sono stati emarginati per la loro capacità di percepire l’invisibile.

 

E come la luce può precedere lo sguardo che la sa riconoscere, così anche la parola può nascere in un deserto che ancora non sa ascoltarla. Ci sono parole che sembrano pietre scagliate troppo lontano, nel buio.

Franz Kafka scriveva in un mondo che ancora non conosceva l'assurdo come condizione esistenziale. Egli stesso, nella sua solitudine lucida, confessava: "Ero in anticipo di cento anni. Ero, sono tuttora, isolato". Nella sua ombra si rifrangeva una verità che il Novecento avrebbe solo più tardi riconosciuto: l'angoscia muta del moderno.

Il suo sguardo era clinico e metafisico insieme: osservava l'uomo come se fosse un insetto sacro, una creatura smarrita in un labirinto di leggi non scritte e di autorità spettrali, un'umanità imprigionata dall'invisibile.

In Il processo, Josef K. è colpevole senza sapere di cosa, in La metamorfosi Gregor Samsa si risveglia scarafaggio senza spiegazione: sono parabole dell'alienazione assoluta, racconti in cui il reale si deforma per riflettere il trauma dell'esistenza.

Kafka non offre via d’uscita, ma una lucidità tagliente. Scrivere, per lui, era come respirare sott’acqua. Eppure lo fece, fino alla fine, sapendo che forse nessuno l'avrebbe capito nel tempo presente.

 

Così anche Emily Dickinson, chiusa nella sua stanza come un sepolcro di luce, intuì la potenza pericolosa della verità: "la verità deve abbagliare gradualmente, altrimenti ogni uomo resterebbe cieco." Le sue liriche, troppo pure e troppo scabre per un’epoca che ancora affidava la poesia alla metrica e alla retorica, restarono sepolte fino a che un altro secolo non aprì quegli scrigni colmi d’oro.

Scriveva come si prega in una lingua non più parlata: i suoi versi, compressi in folgorazioni, vivevano di silenzi e sospensioni, frammenti di una teologia personale in cui il sacro si faceva intimo, ferito, interrogativo:

“Io sono Nessuno! E tu chi sei?
Sei – Nessuno – anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! – ci caccerebbero, – lo sai!

Che noia – essere – Qualcuno!
Che pubblicità – come una Rana –
che ripete il tuo nome – tutto giugno –
a un pantano ammirato!”[2]

 

Non cercava il canto dell’io, Emily, ma la crepa attraverso cui filtrava l’assoluto: ogni trattino che spezzava il ritmo era una fenditura nella linearità del tempo, un battito interrotto del senso. Emily Dickinson riscriveva il linguaggio come se stesse riscrivendo il mondo.

La sua voce non fu ignorata: fu troppo pura per essere ascoltata.

 

E Arthur Rimbaud, il ragazzo fuggiasco che incendiò la lingua francese e poi sparì nel deserto: chi meglio di lui può racchiudere l’essenza dell’alieno precoce? La sua confessione più celebre, "Io è un altro" (“Je est un autre), non è solo una provocazione, è il riconoscimento tragico che l'identità stessa, per chi vede oltre, si sfalda, si sdoppia, diventa altro da sé.

Quelle parole — scritte a soli 16 anni, il 15 maggio 1871, in una lettera al suo professore Georges Izambard — nascono da una stagione tumultuosa, segnata dall’urgenza rivoluzionaria della Comune di Parigi e dal desiderio del giovane poeta di abbandonare per sempre la provincia asfissiante.

Je est un autre” è il cuore pulsante della sua poetica, una deflagrazione grammaticale che è anche metafisica. Non dice “je suis un autre” — “io sono un altro” — ma “je est”, “io è”: una frattura nel linguaggio che riflette una frattura dell’essere. L’Io non è più soggetto unificato, ma scena abitata da un Altro che parla, che pensa, che scrive attraverso di noi.

È falso dire: io penso; si dovrebbe dire: mi si pensa”, e ancora: “se il rame si desta tromba, non è colpa sua”. È l’immagine perfetta di una soggettività invasa dal canto, trasformata da una forza che la oltrepassa: l’identità diventa evento, passaggio, metamorfosi. La coscienza, un’eco. L’artista, un medium. “Io assisto allo schiudersi del mio pensiero; io guardo, io ascolto; lancio una toccata d’archetto; la sinfonia si sommuove nelle profondità”.

È questa la visione che si espande e si radicalizza nella lettera a Paul Demeny, anch’essa del maggio 1871, universalmente nota come Lettera del Veggente (Lettre du Voyant).

Rimbaud si definisce “veggente”, pronto a “raggiungere l’ignoto attraverso lo sgretolamento di tutti i sensi”: un processo estremo, visionario, che apre le porte della percezione al prezzo della dissoluzione. Egli non si limita a pensare: si trasforma. Si fa “il più grande malato fra tutti, il grande maledetto e il Sapiente supremo”, per farsi attraversare da ciò che ancora non ha nome.

È lui stesso a dirlo: “Se è informe, dà l’informe. Se ha forma, dà forma. Trovare una lingua... anima per l’anima, profumi, suoni, colori: pensiero che si aggrappa al pensiero e lo tira”.

Il poeta è un moltiplicatore di ignoto, un rapitore del fuoco, responsabile dell’umano, dell’animale, del mondo stesso.  Anche se finirà per perdere la ragione, avrà veduto.

La poesia diventa così una pratica oracolare, estatica e sacrificale: un’estasi che rasenta la distruzione.

Come scriverà Sartre ne L’Essere e il Nulla, diventare veramente sé stessi significa lasciarsi attraversare dall’altro, farsi forma ospitale, cedere la padronanza.

Rimbaud, in anticipo vertiginoso sul suo tempo, ha incarnato fino in fondo questa verità: per vedere ciò che gli altri non vedono, ha dovuto scomparire da se stesso.

Essere, appunto, altro.

 

Colui che sopravvive al proprio tempo si ritrova ad abitare una terra straniera: un superstite, un testimone dell’invisibile.

Anche Gesualdo Bufalino fu uno di questi. Per decenni visse nel silenzio, nell'ombra di una provincia lenta e sonnacchiosa, coltivando in segreto una scrittura colta e raffinata, destinata a fiorire solo nella tarda stagione della sua vita.

Solo con la pubblicazione di Diceria dell’Untore, nel 1981, il mondo poté finalmente ascoltare la sua voce: una voce che parlava di morte, ma soprattutto della fragile grazia di chi sopravvive ai propri fantasmi.

Nel sanatorio siciliano in cui il romanzo è ambientato — trasparente trasfigurazione della sua esperienza personale — la morte è una presenza ovattata, incombente, familiare.
Chi sopravvive non ne esce indenne: “Sopravvivere agli altri è una colpa che non si espia",
scrive. Il protagonista di Diceria — come Bufalino stesso — è un uomo che ha già oltrepassato il confine della vita, pur continuando a camminare tra i vivi: "avevo compiuto l'esperienza del morire senza morire, ed ero rimasto a vivere come un morto."

 

“Almeno mi scoppi di grida

la mente nei corridoi

di questa casa da suicida,

piena di corde e di rasoi.

Ma è sempre un altro, è sempre un altro

che si lamenta in vece mia,

e l’angoscia si fa più scaltra,

più volontaria la pazzia.

Datemi un male senza libri,

datemi un pianto senza specchi,

una croce che sopra mi vibri,

fatta solo di vento e di stecchi.”[3]

 

Chi vede oltre il tempo in cui vive non soffre soltanto nel riconoscimento mancato: soffre nella carne stessa del suo essere.

È nella psiche, nella solitudine interiore, nella tensione irriducibile tra sé e il mondo che si consuma la parabola dei precursori.

"L’individuo creativo è il portatore di una nuova coscienza, ma paga il prezzo della solitudine", scriveva Carl Gustav Jung, tracciando il destino di chi si inoltra nei territori ancora inesplorati dell'inconscio collettivo: l’Individuo creativo è il portatore di una nuova coscienza, colui che attraversa il deserto della non-comprensione per primo, e per questo paga il prezzo dell'isolamento.

In questa dinamica tragica si innesta anche la visione radicale di Friedrich Nietzsche.
Il suo Oltreuomo (Übermensch) non è “l'eroe muscolare”, come spesso viene frainteso: è l'essere umano che osa vivere al di là dei valori del proprio tempo, in un terreno senza mappe. "L'uomo è una corda tesa tra la bestia e l'oltreuomo – una corda sopra un abisso,"
scrive in Così parlò Zarathustra.

Camminare su questa corda significa accettare la vertigine del non-riconoscimento, la solitudine del precursore.

E ancora, Søren Kierkegaard, il filosofo dell'interiorità, ammoniva: "La folla è la menzogna."

Per lui, l’individuo autentico non può che essere un isolato, un cavaliere della fede che percorre strade invisibili alla massa, vivendo la verità come esperienza personale irriducibile.

Anche Jacques Lacan, voce scomoda e abissale della psicoanalisi francese, intercetta questa frattura costitutiva dell’Io. Con le parole di Rimbaud – «Je est un autre» – Lacan costruisce un’intera architettura teorica sulla scissione originaria che fonda la soggettività.

Il soggetto non nasce come unità integra, ma si costituisce a partire da un’immagine esterna, una figura riflessa nello specchio, che lo aliena e lo fonda. Nello stadio dello specchio, l’Io prende forma riconoscendosi in un’alterità che è al tempo stesso rassicurante e ingannevole, poiché lo separa da sé proprio mentre lo genera.

Così, l’identità diventa una costruzione a strati, «una cipolla» fatta di identificazioni successive, di maschere sovrapposte, di ideali altrui.

L’Io, secondo Lacan, è sempre un Altro: un’eco, un’immagine, un effetto semantico.

Non siamo padroni di noi stessi: ci pensa l’Altro, ci desidera l’Altro, ci parla l’Altro.

Siamo ospiti in casa nostra. E questa alienazione non è un incidente, ma la condizione stessa della nostra esistenza.

 

E penso a Pessoa, a Schiele, a Pasolini, a Hölderlin, a Virginia Woolf, a Simone Weil, a Carmelo Bene, a Walter Benjamin, a Vivian Maier, a Nikola Tesla

 

C'è un uomo che cade sulla Terra.

I suoi occhi vedono cose che altri non vedono.

Le sue mani disegnano forme che altri non riconoscono.

Le sue parole risuonano in un silenzio che nessuno sa colmare.

 

Chi viene da un altro tempo non sempre trova accoglienza: più spesso inciampa nella solitudine, si smarrisce nell'indifferenza, si spegne nella dimenticanza.

Ma il suo passaggio lascia tracce luminose, luccicanze.

Come semi invisibili piantati sotto una terra ancora fredda, le sue visioni attendono, resistono, fremono. Forse il futuro ha bisogno di questi alieni per nascere. Forse il mondo cammina sulle tracce di chi ha visto prima. Forse ogni artista, ogni poeta, ogni pensatore che cade anzitempo sulla terra non è un errore, ma un presagio.

E allora, come dice Rimbaud: Je est un autre.

Essere altro è il destino di chi porta il nuovo. È la condanna, ma anche la gloria segreta, di chi attraversa l'abisso tendendo una corda invisibile verso l'oltre.


Arthur Rimbaud, Street Art by Ernest Pignon-Ernest





[1] Emily Dickinson, J260/F288,1861, Trad. Margherita Guidacci.Testo originale:

 

I'm Nobody! Who are you?

Are you - Nobody - too?

Then there's a pair of us!

Dont tell! they'd banish us - you know!

 

How dreary - to be - Somebody!

How public - like a Frog -

To tell your name - the livelong June -

To an admiring Bog!


[2] Gesualdo Bufalino, Preghiera di Mezzogiorno, in L’amaro miele, 1989


 [3] L'uomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth) è un film del 1976 diretto da Nicolas Roeg.

Pellicola di fantascienza il cui soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Walter Tevis.Il ruolo di protagonista, Thomas Jerome Newton, è interpretato da David Bowie, al suo esordio nella recitazione.

 


Commenti

  1. Testo molto completo con tanti spunti di riflessione. Complimenti

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari