DOVE RESTA LA LUCE - Michela Silla su "Che i fichi nascano rossi", PeQuod, 2024 (pp. 79) di Valentina Demuro

 

Michela Silla



I versi della raccolta poetica Che i fichi nascano rossi, l'ultima fatica di Valentina Demuro (Terlizzi, 1987) edita da PeQuod nel 2024, si compiono lungo il crinale tra buio e luce. La Puglia, terra d’origine della poetessa, è al contempo nido ombroso che ruba slanci vitali e grembo fertile dal quale continuano a nascere i frutti.


La silloge è divisa in tre parti, ognuna introdotta da una citazione; la prima è tratta da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: uno scambio tra Odisseo e Calipso, nel mezzo del loro struggente addio. “Sarai più solo che nel mare”, sentenzia Calipso alla fine dell'epigrafe. Odisseo, che porta l'isola in sé, non potrà condividerla con nessuno ed essa diverrà “l'eco di un mare tra gli scogli e un po' di fumo”. Anche per Valentina Demuro c'è un distacco, una separazione inevitabile dalla “terra che perde / gli alberi e i figli” (p. 9), in seguito alla quale l'autrice prosegue nella sua ricerca – benché, come Odisseo, quel che insegue lo porti nel cuore – avanzando su un confine fra splendore e oscurità.



*


Abbiamo osato troppo

come rami

sospesi in un inverno sconosciuto

i figli sono caduti con le ultime foglie

con le spalle ricoperte di vento

li abbiamo raccolti vuoti

dentro i sogni rotti.

Tu in quale giardino sei sceso

a recidere le radici della memoria?

Dal centro

di questa burrasca di ombre

non parli

(p. 15)



Tornano alla mente in un lampo le parole di Paul Celan: “dice bene chi dice ombra”. Interamente restituiscono la realtà vocaboli non ambigui, ma capaci di comprendere e trattenere vita e morte. In una dimensione dove queste ultime si avvicinano, dovrebbe stare il poeta. È qui che si trova Valentina Demuro, circondata da “ombre scure di bagnanti / nella luce rifranta di mare” (p. 38) e sotto “un cielo di acciaio e amaranto / tragedia e luce” (p. 60).



*


Nessuno mi tocchi o parli

lasciatemi sola

alla pietà della mia terra

al mandorlo che non si può sfiorare

al gelso nero

che sanguina con me.

Tornare daccapo bisogna

per credere possibili altre vie

legare pazientemente la corda

attorno all'innesto su queste macerie

pregare

che la pioggia arrivi

nella giusta stagione

che i fichi nascano rossi

(p. 16)



I fichi – che in tutta la Puglia hanno avuto per secoli una funzione fondamentale di sostentamento – nasceranno rossi se le preghiere verranno esaudite; i fichi nutrono, vengono morsi, spolpati dal sole, spogliati della buccia. Ma occorre tornare indietro, alle macerie, sperare che “svernerà il mare e si farà di luce”, anche quando l'attesa viene scossa da una “vertigine di tradimento”. 



*


Nei capelli bianchi di mio padre

ho la vertigine di un tradimento

come di chi adorna gli spazi delle attese

sapendo che svernerà il mare

e si farà luce.

E io ora vado

su questo cammino in cerchio

ora resto albero ossuto su cui

invecchiano in solitudine le foglie

(p. 20)



Il Sentimento di casa (p. 39) è ambivalente, “come straniarsi / e appartenere al contempo” (p. 39), e contiene “nascoste nel cuscino / le risate di bambina / con le croci e le preghiere amare” (p. 44): se da una parte l'allontanamento è necessario, dall'altra il tempo presente non perde le ombre del passato e porta con sé il mistero, seminando tracce prodigiose di ciò che avverrà.



*


L'acqua prova a nascondere i piedini

della bambina che grida, fugge e ritorna

ride tutta nei suoi pochi denti.

Io non ho che le mani e la voce

per posare un sassolino sulla sua meraviglia

mentre il maestrale

già arrota i versi all'aria

che ora porta un'incrinatura, un mistero 

e le ombre dei pescatori affrettano

la fatica della barca

(p. 41)



Eppure “Di cento anni / raccogli poco in una bella estate” (p. 44): è un tempo che fugge, un tempo sleale; tutto conserva, ma a volte lo nasconde chissà dove. È necessario dunque chiamare i ricordi e appartenere agli anni come alla terra; prendere luci e ombre – vita e morte – e tenere ogni crepa, ogni infedeltà, non perdere mai la concentrazione, ascoltare. E allora, nel padre che parla con la madre, può capitare improvvisamente di sentire “la voce di un dio” che “solo coltiva la luce / l'amore / che ha premura di essere” (p. 45). Dentro quella voce è possibile domandare “un significare alle cose”:



*


Chiedo un significare alle cose

un segno, una voce che rammenti

da dove a dove ritorni l'esistenza

se il senso della morte di questa pesca

è uguale a quella di un uomo

perché nella sua rossa decadenza

a tratti vedo come piangevi, come

consumavi nei pugni le mani

(p. 52)



In questo interrogativo aperto, luminoso e tremendo, il cuore “si dimena, si leviga / corrode di pianto” (p. 58); cerca l'eco del mare, il gelsomino che sa reggere da solo “l'oscurità di una notte intera / i tuoi germogli neri / la paura dei bambini / che sgrana gli occhi” (p. 59)



*


(…)

Qui non c'è nessuno

che ti prende per mano

e tu non hai imparato 

il trucco di cercare le stelle

dove il buio si fa profondo

(p. 59)



Il senso di tutte quelle stelle è “l'enigma di chi deve scegliere / che cosa farsene del proprio dolore / un pianto livido cieco / oppure un canto” (p. 77).



*


(…)

Sperare e poi credere, fare in modo

che la primavera arrivi a toccare

anche la bocca del tulipano

che non ha mai bucato la terra.

Non siamo mai soli

se una volta

abbiamo potuto amare

(p. 76)



*


Sarà ancora il rivolo marino

che accende  azzurri i confini

e una fede

così attaccata alla vita e alla terra

la terra che porta tutto il sangue

come un'eco cavernosa e antica.

Sarà ancora scintilla unica 

di un incanto enorme

anche quando cadranno le ossa nel buio

spoglie di un luminoso fiato

(p. 78)



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