CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - La libreria di Bari

 

Anna Segre

A Bari c’è un libreria che vende solo poesia. Ha una faccia da portale cosmico, un aspetto magico, al contempo accessibile e criptato. 

La libraia è una jedi che potrebbe venire da altri pianeti, mandata in missione a tenere l’avamposto in caso di resistenza all’oppressione, una fondamentalista culturale. 

Arriva una lama di luce sugli scaffali dalla vetrina piccola, ma quasi tutto è in ombra, i libri acquattati come guerriglieri.

Lei, la libraia, è conosciuta, come un medico che salva bambini in un villaggio africano, guardata così, misteriosamente salvifica, oracolare. 

Me la presentano orgogliose, quasi fossero loro lei, quasi lei fosse una loro qualità. 

Io sono Harry Potter al binario 11 e tre quarti, finalmente a casa eppure qui per la prima volta. 

Parliamo. 

Impossibile avere tutto quello che si pubblica.

Ma perché si pubblica? La poesia non ha bisogno di essere stampata, ma pronunciata. E torna il discorso di Giulia Martini, sulla natura parlata della poesia. Ma io lo sostengo: noi abbiamo un modo di cantare, come gli uccelli, è nella nostra natura esprimerci in versi, e quella è la poesia. Poi c’è lo scorpione, che è nella sua natura uccidere, ma è un altro discorso. 

Perché all’inizio era solo poesia, mica c’era la prosa. All’inizio era poema. 

Allora perché, dice lei, queste prefazioni, queste presentazioni? A che servono? Dice lei, la jedi.

Hanno forse i romanzi le prefazioni? Riflettiamo insieme: in effetti no, i romanzi non hanno prefazioni. Postfazioni, poi, jamais

Quanto a presentarli, mah… serve? 10 persone se ti va bene, perché non hanno niente da fare o sono parenti, amici. A sto punto fai una merenda a casa tua. 

Questo bisogno di mutuarsi, di farsi decodificare, approvare, questo bisogno di confrontarsi che naufraga nella falsità, nell’esaltazione del testo, cacciando il pensiero critico in esilio. In esilio come Dante. Come i dissidenti di Mussolini. Come la verità in guerra. 

La poesia, una volta scritta, non è più nostra, dice la jedi. Questo ego tormentoso, questa gara inammissibile, questo sgomitare facendo come se si camminasse. 

Cosa vorremmo veramente?

Essere rivelatori. Innescatori di dubbi. Carezzatori di anime. Descrivere la sofferenza da dentro. Dare tridimensionalità alla piatta realtà tramite lo sguardo della parola. Ma non c’è realtà. C’è solo sguardo. Interpretazione.

E tutto è sesso (fuorché il sesso) infatti questo discorso c’insemina e pensiamo senza dire niente, ché abbiamo paura di offendere, di essere fraintese. Ma sì, l’ansia sociale c’imbavaglia, la chiamiamo diplomazia, educazione, gentilezza. Ammanettate, anche. 

Il giorno dopo leggiamo, io e Giuditta, su una panchina davanti al mare, una riflessione di Piumini sul teatro/poesia, un libro mantello dell’invisibilità, una pozione potente, un avrakedavra che stava come se niente fosse tra quegli scaffali. Lei legge ad alta voce per distrarmi dal dolore dell’astinenza da cortisone. C’è vento. Chiusi gli occhi davanti al barbaglio della luce sull’acqua che però ancora vedo oltre le palpebre. 


Poesia e silenzio sono radicali e opposti: uno l’abisso dell’altro: anche in questo senso il dramma della poesia, del suo essere-nel-dire, è più forte che in qualsiasi altrove espressivo.


Giuditta legge molto lentamente, e io m’intrido come una terra ripetendomi dentro a pappagallo le frasi per meglio capirle. No. Mi pare di mettere a fuoco, ma alla fine intuisco che qualcosa mi sfugge, come intravedessi uno scarafaggio scappare nel muro.


La poesia non sceglie, continuamente, che cosa dire, ma di dirlo in modo assoluto. 


Dentro di me dico SÌ! Si sentono i gabbiani e le macchine passare sul lungomare. 


Ma chi sceglie, parola per parola? Il poeta, certamente, ma anche il lettore, o l’ascoltatore, che non può sottrarsi al dramma, e deve fare la sua parte: deve accettare, non subire: accettare-ricreare la scelta continua della poesia. 


Questo mischio di lettura/scrittura che anche in terapia è la base della relazione: la parola esatta con la quale si può allora procedere.


Deve continuamente resistere, insieme al poeta, all’assedio e all’attacco della banalità, della parola morta. Deve testimoniare continuamente la propria capacità di creare-accogliere l’immagine. Deve, fra l’altro, dire sì alla parola intera e assoluta della poesia, non solo contro tutti i no 

che il poeta ha già scartato, 


tutti i no che il poeta ha scartato. Questo mi appartiene.


ma contro i no che sono suoi, e ai quali la sfida della poesia porta un certo scandalo, una certa offesa: una certa gioia faticosa.


Anche i miei no di lettrice mi chiamano alla familiarità della ricerca.


La poesia richiede al lettore-ascoltatore la sua miglior qualità di lettura e di ascolto e di risposta. Gli chiede di rimanere col poeta sul filo teso del dire, di barcollare con lui nella ricerca dell’equilibrio, di quel baricentro che non fa cadere nel silenzio.


La poesia si annulla nel momento in cui non sceglie la parola migliore, non nel senso etico, ma dell’integrità e totalità espressiva, della rischiosità rivelativa. 


Tu non sai mai, se stai rivelando. Sai solo che devi dirlo. Penso questo. 


…la poesia che sceglie male le parole si distrugge da sola, si dissolve sotto le dita di chi la scrive…


…la sottile ma decisiva differenza di sistemazione atomica che fa di un diamante un diamante, e non un pezzo di carbone…


Sento lo sciabordio delle onde davanti a noi, sto con gli occhi chiusi, ogni frase è un pezzo che si incastra perfettamente dentro la testa, come quei falegnami geniali giapponesi che calcolano gli intarsi e tac, ecco un tavolo senza chiodi. Ripenso a mio padre che non capiva nulla di poesia e mi prendeva in giro, mi derideva, manco ululassi alla luna, diceva che era una forma viscerale, inferiore di espressione, insomma come se scrivere mi trasformasse in licantropa o una strega posseduta da Dioniso.

E allora oggi mi viene da dire: beh, io Dioniso lo rispetto! 


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