UMAMI, DHARMA E BARBABIETOLE - Pietro Edoardo Mallegni - Il frigo, i treni e Kurtz
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Pietro Edoardo Mallegni |
Capita, talvolta, che guardando dentro sé stessi in cerca di un qualcosa da dire, non si trovi nulla di concreto su cui argomentare. Analogamente ad un frigo vuoto, aperto alle sette di sera e subito richiuso per poter ordinare o andare a cenare fuori e scoprire che anche i menù dei ristoranti non hanno proposte capaci di soddisfare la propria fame. Ma che fai? Il rider, oramai, ha consegnato. Analizzati i panini con una cura superiore a quella riservata al 730, decidiamo di buttarci dentro qualche ingrediente che fino a quindici minuti prima abbiamo ritenuto indegno di una ricetta.
Ecco, questo pezzo nasce così.
Purtroppo o per fortuna, un piccolo volo a oriente lo dobbiamo fare, scalo in Giappone e parlo di “Seiryu Miharashi Eki” o “la stazione che ferma nel nulla”.
Devo essere sincero, non ne ero a conoscenza, l’ho scoperta grazie ad un'intervista ascoltata alla Radio. Il concetto è semplice, semplicissimo. Nessuna entrata o uscita. Niente bar o biglietteria. Nulla. Niente case o attrazioni, non ci sono schermi, non ci sono parcheggi, non ci sono auto. Una volta scesi, a parte aspettare, si può solo risalire sul prossimo treno. Quindi viene naturale chiedersi perché fermarsi.
Beh, perché ci sei tu.
Credo che questa stazione sia uno dei pochi luoghi in cui un pensiero, un concetto trova in maniera diretta e brillante la sua realizzazione materiale. L’idea è semplice: prendersi una pausa. Staccare. Isolarsi dal logorio moderno e, finalmente, instaurare un dialogo con se stessi, privo di distrazioni ed elementi esterni. D’altro canto, come un viaggio immaginato per divenire reale ha bisogno di un mezzo, anche uno “stop” ha bisogno di un non-luogo come questo. Ovviamente, esistono molte stazioni, anche in Italia, che fermano in mezzo al nulla, ma nessuna di queste è stata concepita da principio come luoghi in cui prendersi una pausa dal mondo (e comunque, un bar, un qualcosa, lo troviamo sempre); qui, invece, è diverso: il fare niente è obbligatorio.
Credo, che il “far niente" sia un bisogno naturale. In fondo, quanti di noi, hanno davvero il coraggio di fermarsi un attimo, gettare un sondino magnetico dentro sé stessi e vedere cosa viene fuori? Ammesso che il ricavato possa essere piacevole, è comunque un lavoro impegnativo che ci pone nella condizione di affrontare le nostre intimità, fragilità e il nostro essere meschini. Credo che l’incubo dell’uomo moderno sia, appunto, vedere l’immagine di sé, negli anni idealizzata, destrutturarsi nel momento in cui guarda dentro se stessi.
Citando Sorrentino (interpretazione da cult di Servillo) ne “Il divo”: “Noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta [....] bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per garantire il bene”. Io credo che Dio e mondo siano capaci di sovrapporsi nella mente degli uomini, grazie al concetto: Io sono il mio Dio, io sono il mio mondo. La centralità della persona e della sua realizzazione talvolta è superiore alla salute, sia mentale che fisica, della persona stessa.
E dunque se il moderno ci priva di qualsiasi spirito di conservazione di sé, come ci possiamo augurare di avere cura dell’altro? Semplice, non ce lo auguriamo, e sapendo quanto sia disumano tutto questo, quanto questo intimamente sia disgustoso, piuttosto preferiamo rimanere eternamente assenti al dialogo con noi stessi; l’indifferenza è diventata il motore del mondo. Ecco perché ho deciso di parlare di questa stazione così particolare, perché ci vuole un’immensa dose di coraggio per misurarsi e confrontarsi con se stessi.
Ora non voglio assolutamente dare una visione apocalittica del presente e indurre a dubitare di ogni essere umano, ma credo che questo confronto sia alla radice della scrittura.
Bierce, Stoker, Delillo, Shelley, Dick, Chambers, Musil, Eliot (e perdonate se mi fermo), loro come altri hanno provato con i loro scritti e i loro mostri a dare contezza de “l’elefante nella stanza”.
Ma c’è un libro che, a mio avviso, descrive al meglio il viaggio interiore verso “la stazione che ferma nel nulla”, “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.
Si tratta di un piccolo libricino, eppure immenso. Il protagonista Charles Marlow gode di una fama meno affermata del “cattivo” Mistah Kurtz.
Inizio e finale del libro sono diametralmente opposti: Londra e il cuore della giungla, entrambi pervasi dalla stessa oscurità; il percorso è intriso di insidie e pericoli e, ovviamente, mano a mano che Marlow si avvicina al suo obiettivo, le atrocità si moltiplicano e il paesaggio diviene metafora alienante della coscienza dell’uomo, che, addentrandosi nella sua anima, non riesce più a trovare nulla di familiare. Tra le piante si odono tamburi, ma anche urla e versi di animali, ma soprattutto sembra che là, tutti, persino il fiume, sappiano chi sia Kurtz.
La “tana” è un luogo dove la ferocia e la crudeltà trovano la loro espressione materiale più concreta. Un silenzio di tomba. Cadaveri esposti come monito, impalati, squartati o appesi. Kurtz, seppur gravemente malato, è considerato un Dio dagli indigeni, capace di plagiare ogni persona grazie al suo aspetto, alle sue idee e alla sua voce. L'obiettivo è unico: catturare il nemico e portarlo in Europa. Dopo una serie di difficoltà finalmente Marlow riesce nel suo intento, ma durante il ritorno, il nostro antagonista muore chiedendo di rendere note alla sua compagna le sue malefatte e bisbigliando, prima di esalare il suo ultimo respiro, pronuncia le famose parole “L’orrore. L’orrore.”
Marlowe, rientrato a Bruxelles, non racconterà mai la verità alla vedova Kurtz, nonostante le lettere lasciate dal defunto. Da appassionato di cinema, non posso non ricordare l'interpretazione di Marlon Brando in "Apocalypse Now”, adattamento cinematografico di Coppola ambientato però in Vietnam; analogamente, il colonnello chiederà a Willard (il Marlow americano) di raccontare al figlio cosa fosse diventato il padre e di quali crudeltà fosse stato capace; ovviamente, anche in questo caso il desiderio non sarà esaudito. Durante il film, Kurtz prova a spiegare cosa sia in concreto l’orrore, descrivendo la spietatezza dei Vietcong, che, giunti in un villaggio dove l’esercito americano aveva vaccinato i bambini, tagliarono a tutti il braccio punto dall’ago, accatastando i resti come avvertimento. Citando “Questi non erano mostri. Erano uomini.”
Sia nel libro che nel film, viene dato molto spazio alle immagini riguardanti il fiume (nel primo caso il Congo e nel secondo caso il Nung o Mekong), unica via concreta per raggiungere Kurtz, descritto come un serpente che si snoda nel cuore della giungla, vegetazione e immagini di crudeltà si fanno sempre più abbondanti.
Un viaggio, quello di Marlow o Willard, che sembra ripercorrere le tappe dell’evoluzione dell’uomo e che piano li riconduce a una dimensione primigenia, bestiale e preistorica dell’animo.
Conrad scrisse questo libro appunto per dare contezza al mondo della crudeltà dell’esercito belga nel Congo, all’epoca colonia, e proporre una critica sprezzante nei confronti dell’imperialismo.
Nella mia modesta opinione e volendo tirare le conclusioni di questo pezzo che sta mettendo a dura prova la vostra pazienza (e vi ringrazio dello sforzo), che sia un fiume o un treno, metaforicamente parlando, quelle da percorrere realmente sono sempre le nostre membra, appunto sinuose, ingannevoli e infide come un serpente, la cui coda si nasconde nell’oscura giungla del nostro cuore; lì, che ci sia una stazione o Kurtz ad aspettarci, dovremo fare i conti con “l’orrore” che siamo e, risaliti alla verità, sapendo di essere stati capaci di sopravvivere solo abbracciando e uccidendo quella dimensione, se non moriremo nella tratta, dovremo essere capaci di confessare il tutto ai figli e alle compagne, perché oltre alla crisi di sé stessi, bisogna avere il coraggio di saper convivere con il riflesso della nostra immagine distrutta proprio negli occhi di chi ci ama.
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