MUDDICHI – Stefania Giammillaro - “U lupu ri mala cuscienza comu opera pensa”: Io è l’altro
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Stefania Giammillaro |
Per la Rubrica “Muddichi” stavolta vi propongo un proverbio tra i miei preferiti, oltre che più usati: “U lupu ri mala cuscienza, comu opera pensa” letteralmente “Il lupo con la coscienza sporca come opera pensa”. Il significato sotteso, la saggezza di sottofondo evoca, in realtà, molto altro e sta ad indicare l’estroversione a specchio del nostro modo di intendere e di pensare, nel modo di intendere e di pensare dell’altro. Siamo così tanto abituati a ritenere che gli altri si comportino come noi ci saremmo comportati al loro posto, che tendiamo naturalmente, quasi in modo automatico, ad interpretare, decifrare il loro agire attraverso il nostro personale filtro mentale, di guisa tale che si sugella non la loro, bensì la nostra "mala fede”.
Sì, il proverbio in esame consta proprio di un’ammonizione: “se ravvisi la mala fede nell’altro, è perché tu per primo sei in mala fede”. Si potrebbe assumere al riguardo come argomento a contrario il celebre aforisma di Johann Wolfgang Goethe: “la bellezza è negli occhi di chi guarda, sempre”. Di conseguenza, il brutto è nel cuore di chi ne coglie essenza, odore, sapore e rumore. Come se il nostro insieme inglobasse l’altro, che ne diviene un sottoinsieme perdendo ogni condizione di “alterità”.
La descritta considerazione potrebbe innestarsi nella sua più acuta estremizzazione, nell’ambito della nota concezione poetico filosofica ascritta ad Arthur Rimbaud ed esplicata nella riuscita sintesi: “Je est un autre” - “Io è un altro”, un distacco dell’Io e dall’Io che lo identifica, immedesimandolo nell’ “altro”.
Quando Rimbaud afferma, nelle lettere indirizzate a Georges Izambard, suo professore al collège di Charleville, il 13 maggio 1871 e a Paul Demeny il 15 maggio 1871, che “Io è un Altro”, «l’ “Io è” e non già “io sono”, è la soggettività in quanto tale ad essere messa in questione, se non addirittura negata, perché, in fondo, dire “Io è un Altro” significa ammettere che l’Io “non è padrone in casa propria” – per dirla con Freud – che ogni individualità è, in realtà, abitata da un’alterità, da un Altro che la perturba e la frammenta, da un abisso insondabile che assedia e tormenta.»
Sarà Jacques Lacan ad accogliere l’affermazione rimbaudiana in tutta la sua carica sovversiva, declinando in termini psicanalitici il decentramento del soggetto di cui parlava il poète maudit: «Quando Lacan descrive lo stadio dello specchio come “formatore della funzione dell’Io”, come tappa fondamentale nello sviluppo psichico del soggetto, possiamo effettivamente vedere una rappresentazione dell’alienazione costitutiva del soggetto. Il bambino, insomma, nel momento in cui si vede, per la prima volta, riflesso nello specchio e riconosce quell’immagine come propria, capisce in un certo modo che Je est un autre, che il suo Io è fuori di sé, che il suo Io è l’Altro, quell’immagine che lo spossessa e lo aliena.» (1)
Ma se l’Io è l’Altro, se dalla separazione da sé si approda ad un’identificazione nell’altro, come si raggiunge la c.d. poésie objective ? Ossia “una poesia che rappresenta il contatto fatale con l’Altro, l’incontro e l’impatto con un altrove sconosciuto, che porta necessariamente con sé uno sconvolgimento linguistico”?
Nella lettera a Georges Izambard, Rimbaud scrive:
«È falso dire: Io penso; si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e sprezzo agli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!» (A. Rimbaud, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975, ristampa 2006, p. 450).
Ancora più chiaramente specifica in quella a Paul Demen:
“L’Io, insomma” - evidenzia Lacan - “non è una sostanza né un nucleo compatto, che dice di sé “io sono” e “io penso”, ma è un continuo eccedere, un essere-fuori-di sé, un aggrapparsi e cercarsi in qualcosa di esterno, l’Io è un’apertura, che si crea e si origina a partire dell’incontro con l’Altro. Incontro fatale, impatto traumatico: l’Io diventa Altro, l’Io è un altro”. (3)
Ma se nell’incontro con l’altro si perde l’idea di una separazione, manca, per l’effetto, il respiro che consente di osservare e osservarsi e comprendere se amore è amore e, prima ancora, corrisponde all’amore per se stessi e/o ad un amore “giusto” per se stessi.
Ritengo degno di menzione al riguardo il ruolo dell’”Altro” nella poesia di Margherita Guidacci (Firenze, 25 aprile 1921 – Roma, 19 giugno 1992) : “Tu stessa sei la neve che ti cade d’intorno” (M. Guidacci, Perdita di memoria, Le poesie, Le Lettere, 2020).
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Margherita Guidacci |
L’Altro, nella visione della Guidacci, non è scoperta ontologica dell’Io, bensì si presenta come limite, che preclude il tendere all’infinito.
Il tuo ricordo, sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela l’ampiezza
e tuttavia la limita
(M. Guidacci, Il vuoto e le forme, Rebellato, 1977).
Se accolgo l’Altro, riconoscendone l’ alterità come un Insieme “altro” e diverso da conoscere e scoprire, posso arricchirmi nell’incontro, conoscendo me stesso/a, senza soffocare la mia identità e preservando la possibilità dell’Oltre.
Il mio amore che nasce
In te, non finisce
In te
(M. Guidacci, Porta d’amore, Le poesie, Le Lettere, 2020) (4)
Ebbene, nel proporvi questo brevissimo excursus che, dalla commistione di matrice rimbaudiana perviene all’occasione di un intreccio che non nega alcuna soggettività nella Guidacci, la saggezza popolare siciliana racchiusa nel proverbio in esame corrobora la bacchetta del suo monito, lo scopo del suo messaggio morale, invitandoci a diffidare dalle sovrapposizioni che annichiliscono per preferire il riscatto dello iato, le braccia aperte che accolgono e al contempo, valgono a delimitare la distanza di sicurezza idonea a preservare la propria libertà nella libertà dell’altro.
Che non si scorga, dunque, il marcio nell’agire altrui, quale verità ineluttabile, perché l’altro potrebbe essere mosso da ragioni altre, appunto, da altri obiettivi. Non è sempre vero “che a pensare male si fa bene”, affinché non sia il nero a prendere il sopravvento e si respiri quella libertà individuale che accede all’infinito e ispira la nostra carta costituzionale, fondando il nostro sistema giuridico, secondo il famoso detto attribuito a Martin Luther King, sebbene concetto già presente nella filosofia di Kant: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”” (5).
Riferimenti bibliografici
2) vedi anche filosofiaenuovisentieri.com;
4) vedi anche www.mediumpoesia.com;
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