UMAMI, DHARMA E BARBABIETOLE - Pietro Edoardo Mallegni - Il punto di partenza

 

Pietro Edoardo Mallegni


Nozioni e divagazioni su come eseguire un buon piatto e sul perché kombu, pomodoro e “la mamma” sono alla base della buona cucina.

Oserei iniziare questo pezzo, il quale ha lo scopo di farvi fare un balzo dentro al mondo che abito, dicendo che è credenza comune o quanto meno diffusa, che non vi sia collegamento tecnico concreto tra la cucina casalinga, quella della mamma per farvi intendere e la grande cucina dei ristoranti blasonati o degli hotel pluristellati e, come accade anche nel mondo della letteratura, esistono scissioni e correnti di pensiero che ingiustamente vedono il diversificarsi di brigate e cuochi, tra quelli che fanno piatti  diciamo “popolari” e quelli invece che favoriscono un’espressione gastronomica più elitaria. In realtà, i due sentimenti culinari sono così strettamente legati che si potrebbe dire che la differenza reale è solo la cornice del quadro e al centro dell’opera c’è sempre la medesima cosa, la medesima ricerca, la medesima idea di chimica del piatto. Quell’idea, che si concretizza, come vedremo più avanti in un singolo elemento, è il punto di partenza, la regola base del "buono". 


Cari commis e chef de partie, avventori, gastronomi di ventura e grillardin domenicali, facciamo un bel salto indietro, ai banchi di scuola e ripassiamo le essenziali nozioni del gusto. Amaro, dolce, salato, acido; i popolari “Fantastici 4” che solleticano la vostra lingua ad ogni boccone, i più facili da riconoscere e definire. Diretti e schietti. Poi abbiamo i due parenti dell’est, quelli che vengono in vacanza solo nel weekend che sono: Umami ( squisitezza ) e Kokumi ( ricchezza). Ora su questi si fa sempre un po’ fatica, sia nel merito che nel metodo, a riconoscerli o meglio a darne descrizione breve e immediata.  Lasciando stare il secondo che purtroppo sta ancora vivendo la battaglia per i diritti fondamentali, concentriamoci sul fratello maggiore. All’anagrafe nasce  nel 1908, figlio di Kikunae Ikeda, lo diede  alla luce dopo aver fatto bollire per tempo prolungato e fino al prosciugamento un brodo di alghe kombu, sintetizzando dei cristalli che una volta inseriti in bocca, avevano da dire qualcosa di più oltre al semplice “salato”. Di fatto, la definizione popolare di Umami è “profondità di sapore” e quella profondità la ritroviamo appunto espressa nella sua definizione più identificabile nei brodi cotti per molto tempo, nella salsa di soia e molti altri elementi ricchi di proteine. Le proteine, come  ci ricorda la lezione di chimica di qualche ora fa, sono composte da amminoacidi, tra questi uno è il protagonista: l’acido glutammico o meglio il C5H9NO4 . 

    

Ora, questo signore, piuttosto antipatico a farsi trovare, oltre che essere presente naturalmente in alcuni elementi, tendenzialmente vuole essere corteggiato e prima che si conceda all’interno di un piatto o di un alimento, purtroppo, necessita di uno dei fattori  di più difficile reperibilità  sia  in cucina che fuori: tempo. Tanto tempo.  Ecco, che di fatto, compare nel brodo e nei ragout con lunghe ore di cottura, nella salsa di soia e settimane di fermentazione, nell’aglio nero e i suoi mesi di ossido riduzione e infine nel Parmigiano con i suoi anni di stagionatura. Non potendo l’essere umano darsi pazienza ha anche sviluppato il gemello cattivo in laboratorio che sarebbe il glutammato monosodico, che per spiegarvi la differenza è come fare un buon consommè usando un cappone oppure usando il dado. 


Tolti gli esempi sopra citati, il nostro comune amico, compone, al minimo,  il 25% del glutine e  il 20% della caseina e può essere identificato naturalmente nel pomodoro, nei funghi secchi e nella colatura di alici. Non è essenziale per noi, ma per farvi capire, una volta assimilato dal nostro intestino e trasformato in glutammato e tutte le sue derivanti, diviene il neurotrasmettitore eccitatorio più abbondante nel sistema nervoso e grazie alla sua plasticità trasformista è ben coinvolto nella funzioni cognitive, apprendimento e memoria. 


Tornando sul pianeta fornelli, l’Umami, è quel gusto che ti avvolge e coccola allo stesso tempo, appunto profondo, lontano come orizzonte eppure al primo morso immediatamente riconoscibile come linea;  era lì  a Natale con il brodo che la nonna metteva su la mattina prima di andare a messa, era presente da tua zia con il pollo arrosto e quel suo “untino” libidinoso, ma è anche nello “Jus de Viande” cotto per giorni nelle grandi cucine e ridotto a glassa per il filetto alla Rossini, nel brodo di Miso e Dashi di quel ristorante giapponese a Milano, dove puoi andare giusto una volta l’anno ed era infine nella pasta al pomodoro del doposcuola con quella spolverata di grana e la sua scarpetta in fondo. Lui era lì, ogni volta che qualcosa ha potuto godere della definizione di buono, c’era il “Bonjour” da dietro l’angolo dell’acido glutammico. 


Giustamente verrebbe da chiedersi se vale per tutto e vale anche la definizione inversa e porsi la domanda:

“Se è buono contiene C5H9NO4, ma allora tutto ciò che lo contiene è automaticamente  buono? E perché?” 


Questa domanda e la sua risposta rappresentano il viscerale concetto per il quale la cucina è una sola; perché Beppe in trattoria e Jean-Pierre nel suo chateaux alla fine cambiano gli addendi e gli ingredienti, ma il risultato ambito non cambia o meglio la dimensione del gusto ricercata. Nati in una metropolitana o in mezzo al deserto, ricchissimi da avere già la servitù al cospetto oppure così poveri da fare di una stalla la propria casa, da prima dell’invenzione  del  fuoco, il senso del gusto ci è servito a capire cosa fosse “buono”, nel senso del termine più legato alla sopravvivenza per distinguere ciò di cui ci potevamo nutrire oppure no. Gusto e olfatto sono i sensi della diffidenza, che ci hanno concesso la possibilità di separare il veleno dall’antidoto, il marcio dal fresco, il commestibile dal dannoso. 

Eppure tutti gli esseri umani vivono un momento dove questa diffidenza non trova necessità di concretizzarsi e da semore si è definito immediatamente come buono il nutrimento datoci in questa specifica fase della nostra esistenza: l’allattamento. 

Si trova lì la matrice del buono, nell’innumerevole quantità di informazioni codificate a livello inconscio che ci viene trasmesso mentre prendiamo il latte dal seno, un luogo temporale, dove la sicurezza e il conforto sono dati appunto per scontati per continuità della specie e, per tanto, il nutrimento è per il neonato indiscutibilmente buono.  

Tra i vari nutrimenti che ci vengono passati in quel dato momento, troviamo in quantità significative il nostro amico: l’acido glutammico. L’imprinting sulla definizione di buono avviene così. Per tanto che siate degli stellati, strapagati chef che tirano urla in cucina oppure dei cuochi di ventura appassionati gourmand, nonni stanchi in trattoria alle prese con nipoti ai fornelli, cerchiamo tutti e tutte la solita dimensione del gusto, quella primordiale, che si esprime nella sua magnificenza nella metafora d’infinitezza che c’è nella naturale gestualità di una mamma che nutre il figlio e,  inconsciamente edotti di essere  incapaci di ricreare a livello gustativo quel miracolo,  andremo avanti, chi un modo chi in un altro nella nostra ricerca della matrice del gusto, eppure (parafrasando e facendo un po’ nostro il grande Galeano) se tu migliori di un boccone, lei di un boccone si allontana. E allora a cosa serve continuare a inseguirla? Serve a Cucinare. 


Commenti

Post più popolari