POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia incontra Luisa Trimarchi
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Filippo Golia |
Un
primate che scuote una gabbia d'acciaio, con tanta violenza da procurarsi
lesioni e ferite.
Un
anziano monaco tibetano, il ventre enfiato e pochi capelli sulla testa, che si
aggira tra gli ossami di una delle vette dove vengono abbandonati i cadaveri,
secondo la tradizione, al pasto degli avvoltoi.
E
ancora: una delle scimmie dipinte da Francis Bacon, in una delle sue terribili
gabbie astratte, il corpo del primate instabile, prossimo a scomporsi in urla.
Non è
facile tralasciare quanto ho già scritto sulla poesia di Luisa Trimarchi,
per cercare invece di fissare le immagini che immediatamente vi si associano,
se la ripenso nel suo tono complessivo.
Era
nel pieno della pandemia da Covid, avevo bisogno di intervistare un insegnante
di un istituto in cui si erano verificati molti casi, non ricordo come arrivai
al nome di Luisa; che mi raccontò di aver scritto delle poesie, ancora mai
pubblicate e me ne inviò alcune.
C'era
dentro molto di ciò che non amo trovare in una poesia: ossessione, mania, ma
soprattutto un processo di intensificazione emotiva, un accentuare i
significati e i suoni, come di qualcuno che, fatto uno scarabocchio, ci ripassi
sopra ancora e poi ancora, fino quasi a bucare il foglio; con la biro blu.
E poi,
soprattutto, perché quello scarabocchio?
Disabiti abitudini -
scardini supplizi
sussulti sospiri
perduti- salmastri
ricordi di una vita
gioviale - disadorna -
a tua insaputa - ancora
viva - sotto una brace
vivifica - nutrita da
sguardi orizzontali -
oblique verità di chi sa
che non potrà più stare.
Ma nel
cerchio di ossessioni che tornavano su se stesse, in un giro sempre più stretto
e rovente, c'era molta autenticità. Mania e ossessione, diluite in varie forme,
sono un elemento fondamentale della poesia. Qui si trovavano in forma originale
e quasi grezza.
Più o
meno, fu ciò che le risposi. Poi, nella postfazione che accettai di scrivere al
suo libro, “Le stanze vuote”, aggiunsi, tra l’altro, questo: "da un
punto di vista formale la tensione del testo nasce da una contraddizione tra
l’aspirazione a un flusso verbale costante, a una continuità di espressione, al
contorcersi di un’unica indistinguibile materia (opaca o brillante, sana o
corrotta, poco conta) e la realizzazione: breve, sincopata e discontinua."
Sentivo
che una poesia simile, per trovare equilibrio, avrebbe avuto bisogno, forse, di
una stratificazione plurilinguistica, di un fondo dialettale, in cui scaricare
l'alto voltaggio del sovraccarico emotivo, in cui decantare l'ingorgo verbale
della ripetizione, dell'onomatopea, della visceralità.
Invece non c’era molto
equilibrio. Al suo posto si poteva trovare, nei testi, un carico di materia
umana e corporale esposta e dissezionata, senza misericordia: ossa, bronchi,
ovaie, sangue, brandelli di carne.
Rimbombava, così:
Un pezzo di troppo che sporge
e
ridonda rimbombando nell'aria -
quasi
come una bomba che esplode -
incontrollabile
- incontenibile.
inutile
ogni tentativo di distorcere -
spegnere
- controvertere - disinnescare.
tutto
- attorno - è già fuoco e fiamme e
brandelli
di occhi che hanno visto un
tempo
- e di carni che sono state
carezzate
dal rumore lieve del dolore...
E con
molta sincerità la poetessa descrive la prima caratteristica del suo poetare:
che
qualcuno veda la mia voce
- viva
- come solo una voce che
sprofonda
sa essere.
Perché
questo è: una voce che scende in profondità, materialmente, attraverso strati
di corpo e di carne. E alla fine trova anche un suo mirabile equilibrio, quello
che non immaginavo possibile.
Lo trova grazie ad alcuni espedienti tecnici: l'uso dei trattini a introdurre
un secondo ritmo dentro quello dato dal verso; l'accorrere di una seconda voce
che entra nelle poesie grazie alle parentesi.
La
stratificazione che mancava alla lingua è arrivata da una dimensione teatrale,
da un dialogo tra voci. Ne è nato il libro migliore di Luisa Trimarchi: "Storia
della bambina infranta (dialoghi - nudi)”, è un testo molto bello, dedicato
al dialogo col proprio io infantile, carico di traumi (un Pascoli pulp,
scherzavo quando me ne mandava le bozze), illustrato con allegra ferocia da sue
ex-allieve del liceo.
Alcuni
frammenti espongono un equilibrio mai prima così terso:
preghiera
– piana (da bambina poco – sana)
portami
via da ogni
male –
allontana ogni
sogno
provvidenziale.
guidami
fuori dagli
abissi
– lungo la linea
di
confine che separa
la
paura – dalla voglia
di
affogare.
Sbattere
la testa contro sbarre di acciaio, frugare in una ferita, grattarsi una piaga, giocare
con l'infido desiderio di annegare, non sono considerati validi biglietti per
accedere a una visione metafisica del mondo. In genere simili visioni vengono
associate alla meditazione profonda, possibilmente praticata nella posizione
del fiore di loto. Anche se non ce ne rendiamo conto, tendiamo a considerarlo
territorio prevalentemente maschile.
Adesso
sono davanti a un nuovo testo, ancora da pubblicare: un lungo poemetto in dieci
stanze.
Già la forma è inusuale, essendo stati abituati da Luisa Trimarchi a poesie
brevi, frammenti o schegge capaci di ferire. Le parentesi e i trattini si sono
ridotti di numero.
Al
centro del poemetto c'è un cadavere, che viene contemplato, con orrore, senza
orrore; con pietà, in modo spietato; con partecipazione, con profondo distacco.
Di stanza in stanza, il corpo senza vita si trasforma: è quello di amanti
lasciati indietro negli anni, è quello di una sorella perduta ancora prima che nascesse;
poi è quello di un figlio morto prima o dopo di nascere, infine quello della
stessa poetessa; è quello di tutti, di ognuno, di chiunque.
se
avessi raccolto il corpo ridotto all'osso
e
sfregandolo con unguento e bende magiche
lo
avessi rianimato come le antiche donne
che
praticavano magia sapendo i misteri
della
carne risorgendo la paura e tramutandola
in
forza rinnovata - tu saresti ancora vivo -
non
morto e pronto alla sepoltura
lavo
il corpo con acqua di rose e viole - seppure
le
viole e le rose non nascano mai insieme
ma sui
morti convivano come una memoria antica
di un
poetare inesatto - fatto di sentieri
impervi
e siepi invalicabili oltre il cui sguardo
tu non
hai saputo vivere - neanche immaginando.
Ne ha
fatta di strada questa poesia. Davvero! Non è più contratta, assertiva, furiosa.
E ne mostra consapevolezza:
Non si
piange - salva sia la dignità - cerca la parola che non gridi
ma che
effonda!
Il
verso ampio e disteso, prosastico, ricorda a tratti quello dei narratori dello
scandalo (in prosa o poesia): Elsa morante in Addio, certe prediche
sconce di Dario Bellezza (è il prete di se stesso, chiosava - maligno -
Moravia). L'andamento è capriccioso, pieno di soprassalti, allusioni, svolte,
ripetizioni, balbettamenti, toni ossessivi, umoralità e umorismi.
Resta nel
fondo un'accusa, sempre quella: non sei morto (o morta), hai voluto morire; non
sei morto, ho voluto ucciderti io. Non sei morta: non eri mai nata. Molto si è
acquetato, dai primi versi pubblicati a questi, ancora da pubblicare: non il
risentimento.
La
poetessa si addentra nei giardini della morte, ne percorre i viali, non
risparmia nessun particolare al lettore: gli odori, i riti (celebrati o
abbandonati), il colore, gli istanti che precedono, quelli che seguono.
Il vuoto. la possibilità e l'impossibilità della rinascita.
A ogni
svolta, si smarrisce. Ma riprende, insiste.
Alla
fine il corpo, dopo essere stato anche quello di chi scrive, nella decima
stanza, diventa corpo della poesia:
e
aleggiava nell'aria la parola malsana - malattia inguaribile.
la
poesia era morta lo annunciavano pomposi i vivi - coloro
che
non sapevano che farsene di una parola grama - danneggiata
per
sempre: su quel tavolo si distinguevano le parole gettate
negli anni
come promesse di rinascita - come illusioni di eternità
e alla fine:
taceva
la stanza dieci - vuota: sul tavolo nessun corpo un tempo
vivo -
da lavare e portare a degna sepoltura - le parole che divengono
neanche
polvere - solo ricordo - vacuità perduta - memoria rinnegata.
L'incantesimo
lanciato all'inizio si è dissolto. E fuori dall'incantesimo non c'è nulla. Solo
il vuoto.
Un
monaco si aggira su un'altura, tra gli ossami dei corpi che, per tradizione
vengono abbandonati lì, al pasto degli avvoltoi. Il monaco non ha nessuna
apparente dignità: è sciatto, sporco, il ventre gonfio, i capelli radi, non è nemmeno
chiaro se sia un uomo o una donna.
Non
medita, non si accovaccia nella posizione del loto. Solo si aggira, con
indolenza, tra quelle ossa pronte a tornare polvere. Forse, ogni tanto, ricomincia
a grattarsi una piaga, a tormentarsi un'ulcera.
Guarda
le ossa, alza lo sguardo all’orizzonte, dove la luce sorge o tramonta; torna a
concentrarsi sulle ossa, sulla polvere.
Non
c’è altro.
Luisa
Trimarchi si è laureata con lode, in Lettere, all’Università “La Sapienza” di
Roma. Insegna letteratura in un liceo scientifico, a Cremona. Nel 2021 pubblica
la silloge Versi della dimenticanza (Transeuropa), nel marzo 2022 Le
stanze vuote (Controluna). Nel 2022 si aggiudica il secondo premio assoluto
al concorso “L’arte in versi” dell’Associazione Euterpe e tre suoi testi
(tratti dalla raccolta inedita Storia della bambina infranta) sono
selezionati e pubblicati in Singolare/Molteplice (puntoacapo), antologia
ufficiale del Premio “Bologna in Lettere”. Partecipa a poetry slam, reading
poetici e incontri; realizza inoltre podcast e gestisce uno spazio settimanale
su una radio web, (Il Radionauta), con una rubrica di poesie, “Coordinate
poetiche”, dove legge i propri testi. Interessata da sempre alla commistione
dei linguaggi artistici, sperimenta forme di video poesia e sintesi grafico
testuali. Nel 2024 ha pubblicato Storia della bambina infranta (dialoghi –
nudi), puntoacapo ed.
È vero, avendo letto anche una bozza dell' inedito di prossima pubblicazione si nota ancora tutto il risentimento, ma raccontato da uno sguardo di consapevolezza che distribuisce la carica emotiva. Nelle precedenti sillogi la sentivo tutta in un punto e per me era impossibile arrivare alla fine senza prendermi lunghe pause per ritrovare equilibrio. Ora le poesie di Trimarchi si leggono tutte d' un fiato e non per minore intensità, ma perché ti guida, costruisce, centellina gradualmente e inesorabilmente colpisce
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