POESIA ALL'OPERA – Stefania Giammillaro - "Ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!" Il sorriso del clown tragico
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Stefania Giammillaro |
Recitar!
Mentre preso dal delirio,
non so più quel che dico,
e quel che faccio!
Eppur è d'uopo, sforzati!
Bah! Sei tu forse un uom?
Tu se' Pagliaccio!
Vesti
la giubba e la faccia infarina.
La gente paga, e rider vuole qua.
E se Arlecchin t'invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor, Ah!
Ridi,
Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t'avvelena il cor!
L’Opera
Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, rappresentata per la prima volta al Teatro dal Verme di Milano il 21
maggio 1892, costituisce un emblematico, antesignano esempio
di metateatro a doppio livello
perché, da un lato, la trama è tratta da una storia vera a cui Leoncavallo bambino,
si dice, avrebbe assistito; dall’altro, i personaggi, da brave marionette
pirandelliane, sono a loro volta spettatori di loro stessi sul grande
esuberante palcoscenico che è la vita stessa, la vita reale, intendo. (1)
La suggestione sta nell’intreccio tra finzione e realtà che ne elimina ogni distinzione consegnando al pubblico la incarnazione del c.d. clown tragico, specie nella celebre aria “Vesti la Giubba” intonata dal capocomico Canio subito dopo aver scoperto il tradimento della moglie Nedda con il contadino Silvio e, su invito solerte di Beppe, costretto, sebbene sconvolto e affranto, ad interpretare la parte di un Pagliaccio (perché così vuole il pubblico) calato a sua volta nel ruolo del marito tradito.
Si deve all’attore britannico del XIX secolo Joseph Grimaldi - considerato, non a caso, il “padre del clown moderno” - l’avvento della figura del clown nel circo così come comunemente inteso: trasformò il clown in un personaggio tragico e comico al tempo stesso, combinando buffoneria fisica con una profonda malinconia (2).
Come
se da quel momento, la comicità fine a sé stessa di plautiana memoria, che
pullulava tra i buffoni di corte preposti a far sghignazzare la nobiltà fino ad
approdare alle maschere della Commedia dell’Arte Italiana del XVI secolo,
avesse lasciato il passo al “sorriso che fa meditare”, cui faceva da
contraltare l’opera di Terenzio, che, peraltro, fu il primo a teorizzare il
concetto di humanitas all’interno del
Circolo degli Scipioni: mutuando dalla tradizione menandrea, Terenzio elabora
ulteriormente la funzione etica nel dramma teatrale, e sviluppa in modo
approfondito i rapporti interpersonali e i caratteri psicologici dei suoi
personaggi, basti pensare, al riguardo alla commedia Heautontimorumenos ("Il punitore di se stesso") del 165
a.C. (3)
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»
- «Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano»
“Humanitas, per Terenzio, significa anzitutto
volontà di comprendere le ragioni dell'altro, di sentire la sua pena come pena
di tutti: l'uomo non è più un nemico, un avversario da ingannare con mille
ingegnose astuzie, ma un altro uomo da comprendere e aiutare”. (4)
La
comicità, dunque, immergendosi “nelle pene umane da comprendere” si ramifica
nella biforcazione tra ilarità e malinconia, tra l’ "Eterno seminatore”, il
fornitore, il donatore di vita e sostentamento, e l’ “Eterno mendicante”, il
beneficiario, colui che vuole solo per sé (5). Si postula il passaggio
semantico da clown inteso nel suo
archetipo originario come “campagnolo” “uomo rozzo” alla nozione di "uncanny valley" (la valle
perturbante), secondo cui una figura che sembra umana, ma non del tutto, genera
in noi un senso di inquietudine. Il Clown innestandosi ed integrando siffatta
polarità tra uomo/giullare-non uomo, Seminatore/Mendicante, Luce/Buio la
sublima attraverso la risata che ristabilisce l’equilibrio.
«Il
clown è una questione di contrasti, un genio nel giocare con gli estremi e
nell’unire gli opposti. Ove c’è ordine, il clown crea disordine. Dove c’è
qualcosa di enorme da raggiungere, il clown lo minimizza. Dove c’è qualcosa di
piccolo da fare, il clown nel processo impiega grandi sforzi. Soprattutto, un
ego gonfiato sarà fatto scendere dal piedistallo e viceversa un ego “sgonfiato”
vi ci sarà fatto salire! Fare tutto ciò in modo divertente e amorevole porta il
clown ad unire gli estremi.» (6)
E in
questa esperienza sublimata e trascendentale degli opposti attraverso di sé, il
clown si rende esperienza di completezza secondo i dettami della filosofia junghiana: “senza l’esperienza degli
opposti non c’è l’esperienza di completezza” (7).
In
Leoncavallo, invece, sembra ci si assesti su un unico piano di tragicità che
non trova equilibrio nella risata o nel provocarla, ma nel dramma
dell’esistenza stessa che soggiace ad un doppio tradimento: quello amoroso di Nedda
e quello personale, che costringe Canio a tradire le proprie emozioni per soddisfare
il volere del pubblico (Recitar! Mentre
preso dal delirio,/non so più quel che dico,/e quel che faccio!/Eppur è d'uopo,
sforzati!).
L’uomo
che non supera i propri contrasti interni per sé, ma per piegarsi al volere
becero dell’altro, rispetto al quale versa il più delle volte in una condizione subalterna per sentimento (amore) o per professione (pubblico pagante/datore
di lavoro), diventa schiavo del suo essere uomo, odiando il suo essere uomo e
perde quella “sacra saggezza”, insita nel
“trascendere la polarità” sopradetta e uccide l’uomo come suo opposto: l’opera
si conclude con Canio che pugnala Nedda in scena, uccidendo anche Silvio, venuto
in suo soccorso, poi si gira verso il pubblico ed esclama "La commedia è
finita!" (tale ultima battuta era nella partitura originaria assegnata a
Tonio/Taddeo, anch’esso innamorato di Nedda, ma non corrisposto e per questo si
vendica rivelando il tradimento dell’amata al marito Canio).
La
poesia sembra aver recepito il lato “sacro” del sorriso inteso sia come sinonimo
di saggezza melanconica, che ha radice nella contraddizione umana, sia come quel
raro spiraglio di luce, cui aggrappare una (ultima) speranza o un ricordo di
passeggera felicità o la possibilità di riscatto. Basti pensare alla raccolta
di considerazioni poetico-filosofiche dei Pensieri
(1845, pubblicazione postuma ora reperibile per Adelphi, Piccola Biblioteca
Adelphi 130, 15° edizione) di Giacomo
Leopardi, dove al pensiero LXXVIII si legge: “Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro
il quale nessuno nella sua coscienza trova se munito da ogni parte. Chi ha
coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a
morire”.
Il Premio
Nobel per la letteratura nel 1996, Wislawa
Szymborska, ci consegna con sarcasmo amaro uno spaccato della realtà ancora
tremendamente attuale, che si atteggia quasi alla stregua di denuncia sociale
per approdare infine alla consapevolezza che la tristezza caratterizza la natura
umana.
Il
mondo vuol vedere la speranza sul viso.
Per
gli statisti diventa d'obbligo il sorriso.
Sorridere
vuol dire non darsi allo sconforto.
Anche
se il gioco è complesso, l'esito incerto,
gli
interessi contrastanti - è sempre consolante
che
la dentatura sia bianca e ben smagliante.
Devono
mostrare una fronte rasserenata
sulla
pista e nella sala delle conferenze.
Un'andatura
svelta, un'espressione distesa.
Quello
dà il benvenuto, quest'altro si accomiata.
È
quanto mai necessario un volto sorridente
per
gli obiettivi e tutta la gente lì in attesa.
La
stomatologia in forza alla diplomazia
garantisce
sempre un risultato impressionante.
Canini
di buona volontà e incisivi lieti
non
possono mancare quando l'aria è pesante.
I
nostri tempi non sono ancora così allegri
perché
sui visi traspaia la malinconia.
Un'umanità
fraterna, dicono i sognatori,
trasformerà
la terra nel paese del sorriso.
Ho
qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero,
non
dovrebbero sorridere il giorno intero.
Solo
a volte: perché è primavera, tanti i fiori,
non
c'è fretta alcuna, né tensione in viso.
Gli
esseri umani sono tristi per natura.
È
quanto mi aspetto, e non è poi così dura.
(Grande numero, Milano, Scheiwiller 2006,
Traduzone di Pietro Marchesani)
In Ripenso il tuo sorriso, di Eugenio Montale, può rinvenirsi, invece,
l’accezione salvifica del sorriso in termini pienamente amorosi-evocativi.
Ripenso
il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta
per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo
specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su
tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.
Codesto
è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se
dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e
recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma
questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge
i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e
che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto
come la cima d'una giovinetta palma...
(Ossi di seppia, Torino, Piero Gobetti Editore 1925).
Sulla
stessa onda metaforica si pone una tra le più significative voci del panorama poetico
contemporaneo italiano: Giuseppe
Semeraro.
Vorrei
crollare
addosso
a uno spiraglio
arrivare
con le labbra
dove
nasce l’acqua,
prendere
il verme
che
mortifica il frutto
e
attaccargli un paio d’ali.
Vorrei
crollare
al
centro della terra
nel
suo silenzio senza dolore.
Vorrei
crollare
con
tutta la stanchezza poggiata sulle ossa,
con
un sorriso
che
non fa pensare a niente
ubriaco
di qualcosa di divino.
(tratta da “da qui a una
stella – l’infinito scritto sul corpo”, Animamundi Ed, 2021)
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da qui a una stella - l'infinito scritto sul corpo. G. Semeraro, Animamundi Ed. 2021 |
Se Semeraro fa perno sulle ossa stanche
per lasciarsi crollare con un sorriso/che
non fa pensare a niente, con cui recuperare un elemento divino che (ri)solleva
dall’atto stesso del crollare, in Antonella
Anedda le ossa, o meglio, lo scheletro è immagine scelta per delineare quel
tragico immanentismo scevro da ogni riscatto, che abbiamo visto appartenere a Pagliacci di Leoncavallo e apprezzarne il sorriso fatto solo di denti.
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foto di Dino Ignani |
Dice
un proverbio sardo
che
al diavolo non interessano le ossa
forse
perché gli scheletri danno una grande pace,
composti
nelle teche o dentro scenari di deserto.
Amo
il loro sorriso fatto solo di denti, il loro cranio,
la
perfezione delle orbite, la mancanza di naso,
il
vuoto intorno al sesso
e
finalmente i peli, questi orpelli, volati dentro il nulla.
Non
è gusto del macabro,
ma
il realismo glabro dell’anatomia
lode
dell’esattezza e del nitore.
Pensarci
senza pelle rende buoni.
Per
il paradiso forse non c’è strada migliore
che
ritornare pietre, saperci senza cuore.
(Anatomia, da Historie,
Einaudi, 2018)
Chissà perché il sorriso o “salva” o “annienta”. Riguardo a quest’ultima opzione, si recupera il senso tragico dell’humanitas introdotta da Terenzio e messa in scena da Leoncavallo, a sostegno della prima, invece, può addursi che la parola “sciocco” deriva dalla parola di inglese antico “saelig”, che significa benedetto o santo (8). A tal proposito, tuttavia, credo, che anche in siffatta funzione di “luce”, il sorriso, la risata, pur suggerendo una matrice, un aspetto o una semplice eco divina, non possono dirsi astratti, sfuggenti all’uomo, non richiedono un percorso di de-realizzazione, insomma, non bisogna trascendere l’uomo per giungere alla magia dell’essere Clown.
Forse bisognerebbe solo invertire la
prospettiva, l’ordine dei ruoli e dei passeggeri e cominciare a pensare all’ordinario
che ci circonda come eccezione e allo
straordinario come regola. Cosa
significa? Se vi guardate bene allo specchio il vostro naso è tondo e rosso.
Note bibliografiche:
2. Le origini del clown: dal teatro di strada alla cultura pop
3. Wikipedia _ Humanitas di Terenzio
4. Giancarlo Pontiggia e Maria Cristina Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, vol. 1, Milano, Principato, 1996, p.308
5. L'Archetipo del clown: Riflessioni sulla saggezza antica nell’umore del buffone
6. Idem
7. Idem
8. Idem
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