FRAGMENTA - Deborah Prestileo: L’ingiusto, la sofferenza e Dio. Sul Giobbe.

 

Deborah Prestileo

Nell’incipit del Giobbe, l’uomo è presentato come «integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male» (Giobbe 1:1), un modello di giustizia che vive la propria fede con coerenza e fermezza, e anzi la sua vita, segnata dalla prosperità e dalla serenità, è quasi un inno alla perfezione morale e alla fedeltà al Signore. 

Tuttavia, il satan della corte celeste mette in dubbio la sincerità della fede di Giobbe, insinuando che la sua rettitudine non sia disinteressata ma strumentale, in altre parole volta a guadagnare le benedizioni elargitegli dal cielo. Ma Dio conosce bene l’autenticità del suo fedele servitore e decide di dimostrare al tentatore celeste che, neanche se privato di tutti i suoi beni, l’uomo lo rinnegherà. È da questo momento – il patto tra Dio e il satan – che Giobbe viene messo alla prova e perde tutto in una volta sola: i beni, i figli, la salute. 

Se, come sostiene la tradizione religiosa, Dio premia i giusti e punisce i malvagi, allora perché Giobbe, che è un uomo giusto, viene colpito da sofferenze atroci? L’uomo non sa nulla del patto tra Dio e il satan, e non può fare a meno che attribuire a Lui la ragione del suo dolore, cui pure non trova alcuna giustificazione possibile. 

Ma il suo amore, seppur vacillante, resiste e non crolla mai. Questo è il fulcro della narrazione, ancora di più della conclusione volta a ristabilire l’ordine celeste, perché il dubbio è la condizione più autentica della fede. Se il dubbio non ci fosse, non crederemmo. Al massimo sapremmo, ma allora sarebbe una verità. Credere presuppone sempre un patto di mancata comprensione del tutto. 

Difficilmente l’uomo riesce ad accogliere la sofferenza come prova divina o come l’occasione di un incontro con il Signore, anzi spesso lo vive come un atto gratuitamente ingiusto. Giobbe si aggrappa alla consapevolezza della sua innocenza e lotta in nome della sua fede, anche a costo di sfidare Dio stesso: la sua franchezza, pur sofferta e disperata, è la manifestazione di una fiducia radicale in Dio. 

La sua accusa diventa sempre più urgente, fino a gridare «ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere» (Giobbe 13:3). Questa è già una preghiera, forse la più potente dei testi sacri, perché presuppone l’esistenza di un rapporto libero e autentico con l’Alto, insieme alla necessità, tutta umana, di sapere che non si verrà mai abbandonati da chi si ama. 

Dopo un interminabile silenzio, finalmente Dio risponde. Non risponde, però, alle domande di Giobbe, bensì lo invita a guardare al cosmo che Egli stesso ha creato, conducendolo a riconoscere la propria limitatezza di fronte all’immensità del disegno divino: in altre parole, la giustizia celeste non può essere racchiusa in formule fisse e immutabili. 

Anche quando Dio sembra disinteressato al nostro dolore continua a realizzare il Suo piano divino, che a noi pare incomprensibile e invisibile, a volte persino inesistente. 

Ma, e questo è innegabile, avere fede durante l’abbondanza e nutrirla durante la perdita sono esperienze spirituali profondamente diverse: quando siamo soddisfatti, prosperi e in salute, siamo grati e godiamo felicemente della nostra vita, ma la nostra fede non viene messa alla prova in modo significativo né messa in discussione; durante la perdita, il dolore, il fallimento, la malattia e la separazione, allora ci viene richiesto di compiere quotidianamente un esercizio di amore, peraltro durissimo, che ci porta a una connessione più profonda con ciò in cui comprendiamo di credere. 

Tutto questo, poi, finisce per trasformarci. La vicenda testamentaria di Giobbe, in fin dei conti, non è che è un incontro trasformante con il divino, che invita ogni uomo a guardare al di là del proprio vissuto individuale per cogliere la maestà del creato nel presente, ovvero il miracolo della natura e della vita. Persino Leopardi, al di là della siepe, sentiva la necessità di fingere nel pensiero «sovrumani silenzi» e «interminati spazi». 



Commenti

  1. Grazie, Deborah. Vado convincendomi che in un tempo di sacrosanto personalismo (non individualismo, intendo io) ognuno viva la fede in modalità propria e originale. Ma Dio è amore e tutto vede.

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