RONDINI - Melania Valenti - PAROLE: Riconoscenza
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Melania Valenti |
Una delle cose che amo fare di più è indagare sulle parole. La
loro origine, i loro impieghi, la loro importanza per la vita di qualcuno,
anche solo per me.
Per questo, dopo che ogni tanto mi sono dedicata a questo
senza avere una idea precisa di dove andare a parare, decido di iniziare un
contenitore del blog, all'interno della mia rubrica Rondini, che si chiamerà semplicemente Parole, in
cui ogni tanto andrò a scrivere di ciò che mi ispireranno una o più parole e che
vorrò fissare su carta.
Oggi inizio con Riconoscenza.
Riconoscenza /rikono'ʃɛntsa/ s. f. [der.
di riconoscente]. - 1. Il sentimento di chi è
riconoscente, e il fatto stesso di essere riconoscente: avere, sentire
r. per qualcuno; 2. ant. Riconoscimento,
consapevolezza.[1]
Il termine deriva quindi da riconoscente, participio
presente del verbo riconóscere [lat. recognōscĕre, comp.
di re- e cognōscĕre «conoscere»], tornare a
conoscere, immergersi nella conoscenza profonda di qualcuno o qualcosa, per ri –
conoscerne il valore o l’importanza.
Se già l’essere umano è difficile da comprendere – anche qui
termine composto, dal prefisso con e prendere -, lo è
maggiormente conoscerlo. Si passa una vita intera a cercare di conoscere perfino
se stessi, tanto che Socrate, dell’apoftegma inciso sul tempio di Apollo a Delfi
γνῶϑι σεαυτόν (tradotto dai latini nosce te ipsum, conosci te
stesso) ne fece una delle sue maggiori esortazioni all’uomo, invitandolo a
conoscere se stesso, appunto, prima di pensare di poter conoscere gli altri. Per
ri-conoscere qualcuno ci vuole una tale propensione all’empatia, una tale
assenza di egoismo e superbia, da lasciare aperte tutte le vie del corpo e
della mente per accogliere l’altro e provare ad entrarvi dentro.
Per altro, anche se ovunque nei dizionari la parola viene
data come sinonimo di gratitudine, ritengo che non lo sia fino in fondo,
implicando, la riconoscenza, un atto di maggiore riflessione interiore, un ri-conoscere
un’azione di bene nei propri confronti e, per questo, sentirsi grati e volere
contraccambiare. Cosa che, invece, nel ringraziamento non è implicita, ma può
semplicemente e in modo formale dirsi senza manifestarsi, rientrando in
una buona norma di educazione l’atto del ringraziare quando si riceve una
cortesia.
Essere riconoscente è al contrario una predisposizione dell’animo,
implica pathos e volontà, ed è come se fosse ad un gradino
superiore di consapevolezza rispetto al ringraziare.
Un grande Uomo del secolo scorso, artista, attore, poeta,
cantore e compositore di canzoni, che ha donato al mondo infinita bellezza,
così si espresse, con la sua solita ironia, in merito alla riconoscenza. O
meglio, alla ir - riconoscenza
“Ricunuscenza”
Stanòtte ‘a dint’o liétto cu nu strillo
aggio miso arrevuóto tutt’a casa,
me so’ mmiso a zzumpà cómme a n’arillo…
E nun me faccio ancòra persuaso.
Ma cómme, dico io po’, cu’ tanta suónne
i’ me so’ ghiuto a ffà ‘o cchiù malamènte;
sti suónne sóngo suónne ca te pònno
fà rummanné stecchito cómme a nniénte.
I’ stévo allérta ‘ncòppa a na muntagna.
Tutt’a nu tratto sènto ‘nu lamiénto…
‘O pizzo addò stév’i’ èra sulagno…
Dicètte ‘ncapo a mme: È chisto è ‘o viénto!
Piglio e mme méngo pe nu canalóne
e véco sott’a n’àlbero piangènte
nu fuósso chino ‘e prète a cuppolóne…
e sótto a ttutto stéva nu serpènte.
“Aiuto! Aiuto!” ‘O pòvero animale
se mettétte ‘alluccà cu tutt’o ciato!
Appena me vedètte: “Ménu male!…
Salvàtemi! I’ mo mòro asfessiato!”.
E chi t’ha cumbinato ‘e sta manèra? -
ll’addimannaje mèntr’o libberavo.
-È stato ‘nu signóre aieresséra-
me rispunnètte, e già se repigliava.
-Si nun èra pe vvuje i’ ccà murévo.
Facìteve abbraccià, mio salvatóre!-
Me s’arravòglia attuórno e s’astrignéva
ca n’atu ppòco me schiattava ‘o còre.
Làssame! – lle dicètte – ‘O vvi’ ca i’ mòro? -
E chianu chiano me mancava ‘a fòrza,
‘o còre me sbattéva…ll’uócchie ‘a fòra,
mèntre ‘o serpènte cchiù strignéva ‘a mòrza!
-Chisto è ‘o ringraziamènto ca me faje?
Chésta è ‘a ricunuscènza ca tu puórte?
A chi t’ha fatto bbène chésto faje?
..Ca si’ cuntènto quanno ‘o vide muórto!-
-Amico mio, serpènte i’ sóngo nato!…
…Chi nasce sèrpe è ‘nfamo e sènza còre!…
…Perciò t’aggia mangià! Ma t’hê scurdato
…ca ll’òmmo, spisso, fa’ chiù pèggio ancòra?!-[2]
In questa poesia Totò racconta un incubo in cui, dopo avere salvato un serpente che chiedeva disperatamente aiuto, l’animale, privo appunto di riconoscenza, lo vuole uccidere.
Quanto è attuale, questo testo? E quanto spesso ci siamo ritrovati con l’amaro in bocca per essere stati delusi, ignorati, perfino traditi da coloro cui avevamo fatto solo del bene?
Quante volte noi stessi abbiamo trascurato l’impegno di
qualcuno che ci ha aiutato in un momento di difficoltà? Quante mani tese abbiamo
tralasciato di stringere poi in un abbraccio riconoscente?
Il Principe lo ha rappresentato a suo splendido modo, celato
come sempre da profonda e amara ironia, perché, quando l’uomo chiede
riconoscenza al serpente dopo averlo salvato, questo risponde che non può fare
nulla, contro la propria natura, e che Perciò t’aggia mangià! Ma t’hê
scurdato/…ca ll’òmmo, spisso, fa’ chiù pèggio ancòra?!-
Fino a che punto di profondità giunga Antonio de Curtis
risulta evidente anche ad una distratta lettura, portandoci a considerare che
le peggiori serpi sono proprio quegli uomini e quelle donne che, piangendo e
implorando pietà e aiuto, sono poi pronte a pugnalarti alle spalle alla prima
occasione.
Grazie alla sua genialità, de Curtis trasforma in arte la
sua visione della realtà e dell’umana irriconoscenza e con una amara risata
pone l’accento sul mancato senso di riconoscenza che coglie nello spirito umano.
Nella poesia riportata, il serpente argutamente fa presente che spesso l’uomo si comporta anche peggio di lui. Certamente, non possiamo dargli torto: da una serpe, alla fine, ci si aspetta un comportamento conforme alla sua natura, da un uomo ci si aspetterebbe un atteggiamento diverso. E invece spesso facciamo del bene per ricevere in cambio indifferenza, se non addirittura del male, da conoscenti, amici o parenti.
Ma a questo punto urge da parte mia una riflessione: si fa
del bene per avere un ritorno oppure per fare del bene?
Ciò mi si rafforza dentro ogni qualvolta io senta qualcuno
lamentarsi di questo e, purtroppo, sul mondo dei social mi capita sovente di
leggere testi di persone che iniziano ad accusare e sparare a zero su chi non
ha mostrato riconoscenza nei loro confronti.
Ecco allora che si fa spazio dentro di me un’altra
riflessione: che senso ha il lamento generalizzato, quale effetto si spera di
ottenere, parlando senza dire, buttando la pietra e ritirando la mano, senza
invece usare la cara vecchia parola per risolvere, invece che per mettere altri
nodi al pettine?
È delle anime pure, la ri-conoscenza. È propria di chi mai dà
per avere qualcosa in cambio, di chi spontaneamente e senza farci caso è
pronto/a a porgere la mano in aiuto a chiunque ne abbia necessità.
Chi è così, non si aspetta nulla. Chi è così, non bada al do
ut des, ma vive al meglio delle proprie capacità.
Chi è così rende migliore questa bistrattata terra. E, per
mia fortuna, di gente siffatta ne ho incontrata. E per questo mi considero una
privilegiata.
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