POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia incontra Andrea D'Urso

 

Filippo Golia (disegno di Marco Petrella)

Conoscere bene un poeta è sicuramente interessante.

Ma parlarci al telefono quattro o cinque volte al giorno, può anche essere imbarazzante.

Lavoriamo in una grande fabbrica di infissi in alluminio.

Squilla il telefono. È lui: come ce la mettiamo con l’allegato C? Devo inviarlo? Non è sicuro che arrivi in tempo, potrei accorparlo con il B della sezione 1. E io: Ma i fornitori? Sono Stati puntuali? Hai esaminato il prospetto Z?

Tanti anni fa, quando arrivai, mi avevano parlato di lui: è un poeta metropolitano, dicevano.

Avevo trovato un suo libro, edito da Ennepilibri.

Era fatto a forma di block-notes: Occidente express, di Andrea D’Urso. Ci senti subito dentro un post-beat, quella sfumatura narrativa carveriana, le esperienze della poesia urbana, da recitarsi in qualche scantinato più che da leggere sul divano; e un umorismo strano, obliquo, in contropiede:

 

La Cassia-bis attraversa una campagna imbastardita sì,

comunque una campagna.

I Macchiaioli ci avrebbero fatto un pensierino,

se pur spiazzati dal proliferare di costruzioni californicheggianti.

Ma è quando entro in città

che mi rendo improvvisamente conto

di come la vita abbia i suoi quadri appesi,

le sue gallerie private,

i suoi Vermeer ed i suoi Hopper

dipinti nei riverberi della primavera,

nelle albe incenerite dei braccianti e degli operai…

 

E avanti sempre con la stessa fluidità: narrativa, lirica, discorsiva. E ironica.

Con trovate spiazzanti, come in un’altra poesia di quella raccolta, Dream team:

 

Non so se stamattina mia moglie

mi abbia messo qualcosa nel caffè,

ma all’altezza del bivio per Campagnano

penso a molti dei miei scrittori preferiti

e penso di raggrupparli in una specie di formazione.

Anzi, in una formazione vera e propria.

Lo schema è un classico 4-4-2.

In porta ci metto Flaubert, mi serve affidabilità,

esperienza ed anche classe, perché no.

I difensori devono essere difensori per modo di dire.

Devono sapersi proporre, impostare il gioco

e trattare bene la palla.

Possedere inoltre la freddezza

di attuare il fuorigioco al momento giusto.

Terzino destro Céline.

Lo so, è una testa calda,

potrebbe creare problemi nello spogliatoio,

ma un po’ di cattiveria non guasta.

Qualche volta si farà buttar fuori,

ma quando scende sul fondo

non lo ferma più nessuno, non ha rivali.

A sinistra Leopardi.

Sì, fisicamente non è un fenomeno

(ma anche Roberto Carlos non lo è

eppure rimane il miglior fluidificante del mondo)

in compenso ha piedi buoni, fosforo

e crossa che è una meraviglia.

Coppia centrale Pascal-Checov…

 

Stefano Benni non avrebbe saputo giocarsela meglio, quest’idea.

Siamo diventati amici, con il poeta. Tra un piano e l’altro e della fabbrica.

Certo, mi sono convinto presto che si trattava del più sgangherato dei poeti, afflitto potenzialmente da tutti i mali: miopia, presbiopia, emicranie a grappolo, leggera balbuzie.

Anche se poi l’ho visto dominare, dall’alto della sua impassibile, leggera balbuzie, una platea non facile, semplicemente elencando un crescendo di offerte per la telefonia mobile che si sorpassano l’un l’altra, in progressive fantasmagorie di gigabyte, pacchetti di messaggi e dati.

Quindi un poeta così, un po’ performer, ma assolutamente scalcagnato, come se fosse uscito dritto dritto da un racconto di Bolaño.

E anche lui deve essersi convinto che io fossi il più scombiccherato dei funzionari, tra Bolaño e la solita periferia russa di Gogol.

Nel frattempo abbiamo presentato insieme in una libreria (affollata, per una volta) un suo romanzo pulp su un’intricatissima vicenda di killer della mafia, che si fanno metodicamente secchi a vicenda.

Ed è rimasta tra noi, perenne, la possibilità di attaccare a parlare, in qualsiasi momento, di Bolaño naturalmente, ma anche di Fleur Jaeggy o di Cristina Campo e perfino di Simone Weil.

Ma il più delle volte ci ritroviamo soli al telefono e uno dei due incalza: che facciamo con la partita numero 22134F? Protocolliamo? Taglio gli ordini delle schede perforate per i prossimi sei mesi?

Sopra cinque o sotto cinque? Carta vince? Carta perde?

Bah…

Così, negli anni, sebbene Andrea D’Urso abbia scritto molti romanzi, più di quanti io potessi leggerne, è arrivata anche un’altra strana opera di poesia, che conservo nella mia libreria. È uno volumetto di nemmeno 60 pagine che inizia così:

 

Non bevo, non fumo, non vado a donne,

non vivo di notte, la sera mi addormento subito

e la mattina mi alzo presto,

mi piace la coca-cola e lo spumante dolce,

mangio ogni giorno frutta e verdura,

vivo in una villetta a schiera con la sala hobby e il camino,

non ho studiato da solo, non ho studiato proprio,

ho 25 giorni di ferie l’anno e un’assicurazione sulla vita,

anzi sulla morte

 

Rubinetteria è un poema in 30 canti, o capitoli, sulla vita di un uomo qualunque, comunemente psicopatico (cioè malato nell’anima): un rappresentante di rubinetti.

È quello in fila al supermercato, davanti a noi, o alla posta. Non ha niente di speciale. O di bello.

 

E ho anche una moglie e un figlio,

ma non ho un’infanzia tormentata,

non mi alzo d’improvviso per scrivere,

la sola volta che mi sono alzato all’improvviso

è stato quando è scoppiato il televisore

 

Però, scrive poesie, in sostanza è l’autore del poemetto che leggiamo:

 

Un tempo scrivevo poesie come

“ripercorrendo un sentiero crudelmente incoativo”

poi ho scritto cose come

“nel golfo dell’essere non s’incagliano le ancore”

Adesso no, adesso va molto meglio,

adesso scrive poesie come questa.

 

Lui sogna una vita ideale: piena di soldi, auto e belle donne. Ne ha una parecchio mediocre.  Ha manie di onnipotenza e crisi mistiche; immagina di dialogare con Dio e addirittura lo incontra lungo una strada: è una misteriosa ragazza che gli ha chiesto un passaggio con l’autostop.

Soprattutto, è capace di penetrare l’anima dei beni di consumo, che sono - più o meno - tutto ciò che lo circonda:

 

La gente comune forse non lo sa

ma ogni rubinetto ha una sua anima

                                  e un suo portamento

Non ci avete mai fatto caso?

Un rubinetto che perde

è un po’ come un uomo che piange.

I miei rubinetti però non perdono mai

                                            vincono sempre

 

È di circa 10 anni fa, questo personaggio; oggi probabilmente avrebbe votato Trump nelle presidenziali americane. Vincendo.


Ma più oltre esita:

 

E quando non ci sono i miei sogni,

ci sono i miei pensieri…

A volte ne ho proprio di strani. Belli però.

Tipo, perché quando conosci qualcuno

gli chiedi subito che lavoro fa o dove abita,

e non gli puoi chiedere invece

ma secondo te qual è il senso della vita?

del nostro stare al mondo?

 

 

Non sembra. Ma una simile esposizione dell’interiorità di una “persona comune” è un’operazione violenta, a tratti oscena.

Soprattutto perché si tratta pur sempre dell’interiorità di qualcuno che scrive versi, di un poeta (non importa se valido o meno).

Poesia, musica, arte, sono sempre una rete, un sistema di relazioni che mette in connessione più soggetti, distanti nello spazio e nel tempo.

Un soggetto assoluto, un puro consumatore, un limpido utente di supermercati e catene di ristorazione, può avere con la poesia – come accade a molti di noi (anche se a stento ce ne rendiamo conto) – solo un rapporto paradossale: vuole un’anima poetica ma non vuole, meglio non può, entrare davvero in relazione con gli altri.

Da qui la potente sensazione di irrealtà che accompagna questo poema, pure in una descrizione così piatta e veritiera.

Al punto che un rappresentante di rubinetti, cha batte una qualunque delle nostre ordinate periferie, fa pensare a un consumatore di droghe marziane, in preda ad allucinazioni inventate da uno scrittore di fantascienza come Philip K. Dick o James G. Ballard.

O, andando ancora più all’interno del DNA del poema, si ripensa a certe pratiche della scrittura automatica di inizio 900, alla freddezza metallica che emana dai racconti di Raymond Roussell, generati all’infinito da semplici calembour o altri giochi di parole.

E chissà quanti altri paesaggi, visitati dal tarlo dell’irrealtà, potrà generare adesso, avendo alla base calcoli molto più sofisticati dei semplici giochi di parole, l’intelligenza artificiale, che potrebbe anche finire per trattare la poesia proprio come il nostro rappresentante di rubinetti: come qualcosa di irrelato, opera di un soggetto assoluto.

 

Sono di nuovo al lavoro. La fabbrica macina i suoi ordini e le sue partite. Nel fondo un rumore continuo, esasperante.

Fra poco squillerà il telefono. Sarà il poeta. Deve sicuramente parlarmi di qualche scarico fornitori, di qualche parcellizzazione delle cedole.

Ma ho paura che, presto o tardi, si arresterà un momento in silenzio.

Poi, esibendo una leggerissima balbuzie, affonderà il coltello:

Scusa…

Ma secondo te qual è il senso della vita?

del nostro stare al mondo?





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