LA LINGUA MISTERIOSA DELLA POESIA - Anna Spissu - Indagine sul corpo. Le spalle, il peso e il confine.

 

Anna Spissu


 Tu, o padre, prendi i sacri arredi e i patrii

Penati; io non posso toccarli appena uscito da tale

lotta e strage, finché non mi mondi

a una viva sorgente.

Detto così, distendo sulle larghe spalle

e sul collo reclino una coperta, la pelle d’un fulvo leone

e mi sottopongo al peso; alla destra mi stringe il piccolo

Iulo, e segue il padre con passi ineguali;

dietro viene la sposa. Muoviamo per oscure contrade.

….

                                                                                                    (Eneide Libro II- 720-725)


Troia brucia. Le fiamme sono ovunque, ogni speranza di futuro è perduta. Il vecchio Anchise, sconfitto dalle sorti del Fato, invita il figlio Enea a mettersi in salvo senza di lui. Cercherà la morte, se questo deve essere, inutile forzare la mano al destino. Enea però è figlio amoroso e devoto, non può accettare la vergogna e la sofferenza di abbandonare il padre: il dialogo è drammatico, i cuori trafitti dal dolore e dalla paura non vedono altro che morte fino a quando gli dèi misericordiosi fanno apparire un bagliore intorno ai capelli del piccolo Ascanio, una fiamma che non brucia. D’improvviso si accende la luce della speranza nell’animo sconfitto di Anchise, che subito prega gli dèi di mandare ancora un segno.

E il segno arriva: ecco il tuono e la stella che cade dal cielo e traccia una scia, segnando il cammino. La vita ora chiama e bisogna partire, ecco la strada da percorrere, ecco quel che c’è da fare. Prendere sulle spalle il vecchio padre Anchise, il piccolo Ascanio per mano e dietro la sposa.

Nella poesia (ma ancor prima nel linguaggio comune) le spalle sono quella parte del corpo con la particolare qualità di rappresentare una forza solida, capace non di creare o distruggere come può essere per le braccia o le mani, ma di sopportare, di “reggere”, di prendere su di sé un peso materiale, che poi equivale anche all’accettazione di un destino o al suo compiersi.

Per comprendere meglio questo legame tra il destino e le spalle tuffiamoci ancora nel mondo degli dèi dove incontriamo il titano Atlante che regge sulle spalle la volta celeste, condannato a questo destino da Zeus come punizione per aver guidato la rivolta dei Titani contro gli dèi dell’Olimpo. Il peso del destino è sulle sue spalle ma anche sulle nostre perché non è certo un caso che la prima delle nostre vertebre si chiami Atlante.

Che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o meno, il nostro corpo è una biblioteca che contiene frammenti di secoli e millenni passati, custodisce parole che appartengono a sfere celesti relegate dalla logica nel mondo del fantastico e dell’invenzione, ma ancora così vive da fare addirittura parte del nostro corpo.

Anche noi umani abbiamo in sorte di dover reggere “sulle spalle” il peso del destino, peso nel quale confluiscono sentimenti di tristezza e spesso di sconforto.

Così Ungaretti nella poesia che segue:

 

Natale

 

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade.

Ho tanta

stanchezza 

sulle spalle.

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un angolo

e dimenticata.

………………

 

E che le spalle rappresentino il luogo fisico e mentale di pesi, malinconie e tristezze lo descrive per contrasto Alda Merini. Sotto ogni peso c’è un'ala, dentro ogni destino c’è il bisogno di volare.

 

Ho bisogno di alleggerire le spalle

perché è da troppo tempo

che sono cariche di pesi

che non ho voluti, che non ho chiesto.

E poi sotto le mie ali

ci sono io

che ho bisogno di volare.

 

La comunanza fra spalle e destino è descritta in un’amorevole correlazione nella poesia di Antonia Pozzi: se è vero che le spalle reggono il destino, allora il sentimento dell’amore e dell’amicizia possono fare sì che si spalanchi la generosa offerta del cuore: prendere su di sé anche il destino di un altro, abbracciarlo, consolarlo, accudirlo, lasciarlo appoggiare sulle proprie spalle.

 

Appoggiami la testa sulla spalla

ch’io ti carezzi con un gesto lento,

come se la mia mano accompagnasse

una lunga, invisibile gugliata.

 

Non sul tuo capo solo: su ogni fronte

che dolga di tormento e di stanchezza

scendono queste mie carezze cieche,

come foglie ingiallite d’autunno

in una pozza che riflette il cielo.

 

Le spalle rappresentano anche un definito confine del corpo e ciò a dispetto del fatto che la sua interezza va dalla testa ai piedi e non si ferma alle spalle. Per raccontare questo, che sarà nelle poesie che seguono, bisogna prima fare una premessa sul significato di confine. Il confine è ciò che segna la divisione tra una cosa che è fino a un certo punto e un’altra. Tra un prima e un dopo. Non ha la caratteristica di essere sempre immutabile o immobile anzi, al confine si può abbinare l’aggettivo “labile”. L’orizzonte è un confine; sembra una linea definita che divide la terra dal cielo ma sappiamo che è un’illusione dello sguardo: se ci avviciniamo o ci allontaniamo l’orizzonte cambia. Si può quindi dire che all’idea stessa di orizzonte sia connaturata anche quella di un certo mistero: vediamo ciò che ci è dato vedere ma non sapremmo dire compiutamente e totalmente se c’è altro.

Cosa c’è di meglio delle spalle, la parte del corpo che non vediamo se non parzialmente, per esprimere questo?

Antonia Pozzi, nella poesia “Mattino” ci restituisce questa dimensione di confine delle spalle. Il prima e il dopo nello svegliarsi del giorno.

 

In riva al lago azzurro della vita

son corpi le nuvole bianche

dei figli carnosi del sole:

 

già l’ombra è alle spalle,

catena di monti sommersi.

 

E a noi petali freschi di rosa

infioran la mensa e son boschi

interi e verdi nel vento delle chiome.

 

Odi giunger gli uccelli?

 

Più forte e doloroso è il confine nella poesia che segue di Alfonso Gatto, sebbene questo sia mitigato dallo sguardo malinconico e dolce del poeta.  

 

Come, nel prepararti per la morte,

-son tue parole, queste- come credi

di vivere: aspettando sulle porte

il tuo passato o addolcendo i piedi

 

tra le tue mani per il lungo viaggio?

L’amica passerà, con la sua testa

d’un cenno a invitarti, il tuo coraggio

di seguirla ti stacca da chi resta

 

alle tue spalle senza voce e pianto.

Così lontana già dalla sua morte

viene verso di te la madre e accanto

cerca di starti, le sue gambe corte,

 

lunga la veste come fu nei lutti

nella polvere bianca dell’estate.

 

Come sempre nell’essere per tutti

timida e buona chiederà: le rate

del corredo dell’Emilia son finite?

 

Ma le spalle, nel loro essere “confine” sanno anche far sognare. Così vengono “utilizzate” metaforicamente nella poesia “Gli scalini” di Chandra Livia Candiani.

E il peso, il destino, si fa leggero. Possiamo anche volare. Possiamo farcela. 

………

Custodiamo

passi senza sosta senza

gratitudine, siamo spalle

di allegri trapezisti

senza slancio,

guarda noi

dormiamo.

Sono le nostre spalle

Il miglior punto

d’appoggio

per sognare il mondo

senza segni

la visione quieta.

 

 

 

 

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Eneide - Pubblio Virgilio Marone

Giuseppe Ungaretti, “Natale” da Vita d’un uomo. Tutte le poesie (Mondadori, 2009)

Alda Merini, “Ho bisogno di alleggerire le spalle”. Il suono dell’ombra (Mondadori, 2010)

Antonia Pozzi, “Appoggiami la testa sulla spalla”. Tutte le opere (Garzanti, 2009)

Alfonso Gatto, “Le gambe corte”. Desinenze (Mondadori, 1977)

Chandra Livia Candiani, “Fatti vivo” (Einaudi, 2020)

 

 


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