IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Costellazioni

 

Ester Guglielmino

Ci sono poeti che restano giovani per sempre, chiome di Berenice che brillano nel cielo come costellazioni proiettate sul futuro, e nessun tempo potrà farli mai invecchiare perché sono voci consacrate al culto della sopravvivenza eterna. Catullo[1] è uno di questi: giovane, irruento, innovatore di mode e di costumi; eppure la sua poesia è un piatto prelibato, una satura lanx di primizie mai acerbe, uno zefiro brioso che soffia forte sugli altari impolverati dai miti dei poeti. Poco sappiamo di lui e di quel poco tutto o quasi brucia attorno alla fiamma dell’amore, un amore ora sensuale e appassionato, ora dolce e raffinato, più spesso conflittuale e disperato che si pone sempre in rotta con ogni mos imposto dagli antichi. E poi amici, bettole, giochi e cene, scherzi gioiosi di chi sa ridere di niente, perché ha tutta la giovinezza tra le mani. E parole caustiche, infine, riservate a politici e uomini potenti, perché non destano più alcun interesse in chi ha deciso di vivere la vita non come societas ma come prezioso dono personale.


Perché è questa la prima grande novità di questo giovane poeta, l’essere l’esponente di spicco di quella che si accampa all’orizzonte come una vera e propria rivoluzione culturale.

Cos’era stata la poesia latina fino ai poetae novi, il movimento poetico di cui questo rampollo della Gallia Cisalpina divenne presto la punta di diamante? Siamo all’inizio del primo secolo avanti Cristo, nel momento in cui la poesia latina cerca di emanciparsi dalla stretta sudditanza a quella dell’antica Grecia e di trovare, pur nella continuità, una propria fisionomia più autentica e raffinata assieme. I poetae novi - quasi precursori dei dandies inglesi di fine Ottocento - sono espressione di una idea di poesia moderna e raffinata; sono bilingui, leggono direttamente i lirici greci e la poesia ellenistica, conoscono alla perfezione i loro modelli di ispirazione, li citano in componimenti cesellati e allusivi, ingaggiano con loro giochi di emulazione, sono poeti per pochi insomma e ne vanno superbamente fieri. D’altronde l’esordio dei padri della poesia latina era stato di ben altra natura: Livio Andronico, Nevio, Ennio si erano posti sul solco del modello omerico e, pur mantenendo un quid spiccatamente nuovo, ne avevano derivato l’intenzione epica e corale, legata a un contesto socio-politico in cui la res-publica era ancora percepita come un bene partecipato e collettivo. A rendere grande Roma era stata, in fondo, una folla di modesti contadini-soldato, che con coraggio e spirito di abnegazione avevano accettato di esercitare l’arte della guerra per poi tornare alla frugalità della propria modesta condizione. La poesia delle origini aveva celebrato questo, miscelando alla base greca tali valori identitari. Questo stato di cose, nel corso del primo secolo, si evolve invece verso una forbice sociale e culturale per cui la classe media perde ogni possibilità di concreta espressione politica, mentre la civitas romana si ritrova nettamente spaccata in due: da un lato i ricchi - anzi ricchissimi - aristocratici e cavalieri, forti dei latifondi e dei guadagni acquisiti durante quel periodo di incredibili conquiste e, dall’altro, la massa dei contadini impoveriti, inurbati, proletari, divenuti clienti di pochi autorevoli gestori del potere. Si ripresentano sempre uguali, insomma, i giochi di forza di ogni epoca. Vacilla, per poi infrangersi da lì a poco, l’idea stessa di una conduzione repubblicana dell’autorità statale, a favore di leadership (si pensi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo) sempre più imponenti e divisorie. Il cittadino smarrisce ogni fiducia nell’importanza del suo ruolo. Cresce il germe della disaffezione politica e sociale (ed è incredibile come anche in questo caso la storia si ripeta, puntuale!). Si diffondono dottrine filosofiche - come l’epicureismo - che predicano il lathe biosas (vivi nascosto) e la ricerca di un piacere esclusivamente personale. La poesia perde il ruolo di portavoce di valori comunitari, si ripiega su sé stessa, cerca nell’interiorità la sua più autentica espressione. E questo vento trascina anche il giovane Catullo, quando dalla sua provinciale Verona giunge, appena ventenne, nella grande Roma con l’ambizione di farsi conoscere per la propria virtuosistica bravura.

Catullo non ha alcun reale interesse per la dimensione politica, i versi satirici che rivolge contro il progressista Cesare (“Non mi affanno troppo, Cesare, per piacerti
né per sapere se sei bianco o nero”[1]
) o contro il conservatore Cicerone (“O Marco Tullio...di tutto cuore ti ringrazia Catullo, il peggiore di tutti i poeti, tanto peggiore di tutti i poeti, quanto tu sei migliore avvocato di tutti”[2]) - che aveva detto peste e corna dei poetae novi, inventandone anche il nome derisorio - dimostrano quanto lui non nutra alcuna idea politica di fondo, se non quella di cantare l’uomo con quanto di bello e di buono si possa rintracciare nel suo passaggio sulla terra. Primo fra tutti l’amore.



Giunto a Roma, Catullo s’innamora di Clodia, una donna bellissima, colta, spregiudicata, controcorrente, uno dei tanti esempi di concreta emancipazione dal ruolo di matrona asservita al bene maschile e familiare, tipico della società romana patriarcale. Clodia è sorella di Clodio Pulcro, uomo di fiducia di Cesare e influente tribuno della plebe, uomo lesto a stringere collaborazioni politiche, capace di tirare colpi magistrali a nemici politici giurati, come Cicerone - ad esempio - che farà presto esiliare, infliggendo uno strale quasi definitivo alla carriera del celebre oratore. Clodia, sposa dello stimato proconsole Quinto Metello Celere, è giovane, piena di voglie, piena di vita. Quando conosce Catullo, lei - che ha circa dieci anni in più - ha avuto e avrà ancora molti amori e lui è solo uno dei tanti giovani talenti che frequentano il suo salotto bene. Non così per il giovane e inesperto provinciale su cui questa donna ha l’effetto di una vera e propria folgorazione. Tanto da ribattezzarla subito Lesbia, in onore della sua poetessa preferita, originaria dell’isola di Lesbo appunto, e tanto da riadattare per lei una poesia celeberrima di Saffo (in strofe saffiche minori):

 

Carmina, 51

Quello mi sembra pari a un dio,

quello – se è possibile – mi sembra superi gli dèi,

che sedendo di fronte a te, senza posa

ti guarda e ti ascolta,

 

mentre dolcemente sorridi. Questo a me infelice

strappa tutti i sensi: infatti, non appena ti vedo,

Lesbia, non ho più voce

per dire parole.

 

La lingua è torpida, sottile nelle membra

una fiamma si insinua, di suono interno

ronzano le orecchie, di duplice notte

sono coperti i miei occhi.

 

L’amore ti rovina, Catullo!

Nell’amore troppo esulti e ti ecciti:

l’amore già in passato re e felici città

ha mandato in rovina.[1] 

                        

[Traduzione di Angelo Roncoroni]

 

Già in questa poesia, che viene ritenuta la prima dedicata a Lesbia, c’è tutta la conflittualità a cui ci abituerà la sua produzione amorosa: lo immaginiamo Catullo (come avevamo immaginato Saffo) a guardare in tralice dal taglio d’una porta socchiusa quella scena e ne sentiamo quasi il palpito dinanzi a questa donna che è sempre troppo in alto per essere ‘sua’ davvero. E dire che lui cerca in tutti i modi di reinventare per lei una nuova prospettiva dell’amore. Infatti prende in prestito due parole e le prende in prestito dalla più alta tradizione politica e militare, parla di fides e di foedus e li contestualizza in un ambito straniante, che non ha più nulla a che fare col ruolo del civis ma solo con quello dell’homo e della sua sfera affettiva più intima e privata. La fides per i Romani era la lealtà che li legava a doppia lama con i loro più antichi alleati politici, quelli con cui si era firmato un foedus ossia un patto di convivenza e di collaborazione che non andava mai infranto, pena la vita del più debole, che ovviamente non era mai quella di Roma. D’altronde cosa poteva offrire il giovane Catullo a una donna tanto più grande di lui e già sposata, se non il progetto di un patto che andasse ben oltre il matrimonio, perché vincolo fatto di anime, di lacrime e di sangue? Cosa può esserci di più puro, più autentico e più importante di un patto del genere fra una donna e un uomo? Si badi che non esiste ancora l’idea cristiana del matrimonio come consustanzialità dell’esistenza, come unione indissolubile di vite che scelgono di essere una cosa sola. Eppure Catullo - con incredibile modernità - arriva a immaginarlo e a teorizzarlo, chiedendo alla sua amante di accoglierlo, di farlo diventare il suo più intimo segreto. E un’unione del genere non può che coincidere con un inno alla vita, a dispetto di ogni buio che incombe sul futuro:

 

Carmina, 85

Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore
ed ogni mormorio dei vecchi più acidi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore,
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia,
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa costringere
in malie un numero di baci così grande
.[2]

 

[Traduzione di Mario Ramous]

 

C’è in Catullo un’autenticità primigenia, quasi un’ingenuità nello slancio sincero dei sentimenti che lo rende - a pelle - amato da tutti i giovani lettori. Forse perché solo la giovinezza può regalare con leggerezza l’intensità assoluta delle passioni. Ma Lesbia non è Catullo e se c’è una cosa che non si può contagiare è la fiducia indiscussa nell’unicità dell’amore. Forse è questa, in fondo, la discriminante vera che piaga e sanguina in questo antico amore, divenendo da crepa iniziale inguaribile ferita. Catullo vorrebbe la donna tutta per sé, è follemente geloso dei suoi pretendenti, della vita libera che conduce e che non sempre lo prevede. Lesbia forse non è nemmeno così superficiale come lui ce la descrive, probabilmente ha solo un’idea molto meno vincolante ed esclusiva dell’amore. A dispetto d’ogni anticonformismo, il poeta l’avrebbe preferita tanto più rispondente ai canoni tipici richiesti alla donna romana (e non solo). Ed eccolo imprecare allora contro la sua “donna-condanna”, eccolo denunciarne la natura superficiale, eccolo stigmatizzarne l’incapacità di cogliere il senso più profondo dell’amore:


Carmina, 72

Una volta dicevi, Lesbia, “per me non c’è che Catullo,

neanche Giove vorrei al posto suo”.

A quel tempo t’amavo, non come la gente un’amante,

ma come un padre ama i figli, ama i generi.

Adesso ti conosco. Per questo, se brucio di più,

mi vali molto meno. Mi sei molto meno.

“É tanto strano”. Ma un’offesa così ti costringe

ad amare di più e a voler meno bene.[3]

 

[Traduzione di Enzo Mandruzzato]


Paradossalmente, proprio mentre si oppone alle convenzioni sociali, Catullo rivendica per sé un amore che abbia un fondamento etico, che possa rientrare nella dimensione inviolabile degli affetti famigliari. Ed è questo amore sacro e univoco che lega i figli ai padri l’amore che Lesbia non gli potrà mai dare; lui gravita nella sua vita ma sa di non poterla mai completamente afferrare, lui le offre il cielo e lei è una nuvola che si fa sfiorare da lontano.  Per questa via però l’amore può precipitare dalle maggiori altezze, e trasformarsi in odio:


Carmina, 85

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.

Non so, ma sento che questo mi accade: è la mia croce.[4]

 

[Trad. di Francesco Della Corte]

 

Esiste sempre in una storia d’amore un punto di non ritorno, un momento in cui restano frustrate in maniera irreparabile le aspettative, allora l’immagine ideale - rispondente più a un volto astratto che realistico dell’oggetto d’amore - perde ogni colore. Catullo decide di allontanarsi da Roma, complici quegli affetti famigliari a lui tanto cari.

 

Carmina, 111

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,

o fratello, e giungo a questa cerimonia funeraria

per consegnarti il dono supremo di morte

e per parlare invano con le tue ceneri mute,

poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te,

o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto.

E ora queste offerte, che io porgo, come comanda l’antico

rito degli avi, dono dolente per la cerimonia,

gradisci; sono madide di molto pianto fraterno;

e ti saluto per sempre, o fratello, addio. [5]

 

[Traduzione di F. Della Corte]

 

C’è un giovane fratello morto nel mezzo, un viaggio nella Troade dinnanzi alla sua tomba, c’è la giovinezza che si spezza, la vita che si sgretola d’improvviso e fa comparire il suo volto beffardo e desolato. È un brivido di gelo che corre nel cuore di Catullo, che ne fiacca l’ardore e ne raggela l’impeto appassionato. La lontananza da Lesbia, in parte voluta, non aiuta. Catullo sa dagli amici che lei lo ha già sostituito, nelle attenzioni che rivolge ad altri, nei suoi intrighi col fratello, nei suoi alterni umori. Torna a Roma, tenta di riconquistarla prima di partire, nel 57 a.C., al seguito dell’amico Gaio Memmio, per rendere quest’ultimo omaggio straziante al fratello. Lesbia è intanto rimasta vedova, ha scelto di seguire la carriera politica di Clodio, ha deciso di percorrere altre strade, lontana da lui.  La fides è violata, il foedus infranto, resta lucido lo sguardo sulla fragilità umana, sulle parabole fuggevoli di felicità provvisorie, sugli steli reclinati di tutti i fiori di campo che cedono le corolle all’aratro, pronto a tagliarle ancora:

 

Carmina, 76

[...]

Difficile troncare a un tratto un lungo amore,
difficile certo, ma in qualche modo devi riuscire.
È l'unica salvezza, quindi devi ottenerla:
che sia possibile o no, lo devi fare.
Se vi è pietà in voi, dei, se in punto di morte,
nell'ora estrema, recaste mai aiuto a qualcuno,
guardate la mia infelicità e se ho vissuto onestamente
strappatemi da questo male che mi consuma,
che insinuatosi dentro di me nel più profondo
come un torpore ha cancellato ogni gioia dal mio cuore.
Non chiedo più che lei ricambi il mio amore,
né l'impossibile, che mi rimanga fedele:
voglio solo guarire e scordarmi di questo male oscuro.
O dei, per la mia devozione, accordatemi questo.[6]

 

[Trad. di Mario Ramous]

                                                                    

 

Carmina, 11

[...]

poche parole riferite alla mia donna,

parole amare:

addio a lei, se la goda con i suoi ganzi:

trecento in una volta, li stringe tra le sue braccia,

non amando nessuno davvero, ma a tutti senza posa

sfiancando le reni;

e non si volga a guardare, come prima, al mio amore,

che, per colpa sua, come un fiore al limitare del prato

è caduto dopo che, nel passare oltre,

l’ha toccato l’aratro».[7]

 

[Trad. di Mario Labate]

Ancora giovane Catullo si ammalò di una malattia incurabile, che in pochi mesi se lo portò via, ricciolo di poesia pronto a trasformarsi in stella, proprio come quella chioma di Berenice che da Callimaco aveva tradotto nel Carme 66. Lesbia, invece, venne coinvolta nella Pro Caelio, un processo che ne mise a dura prova la capacità di resistere ai pregiudizi ottusi della gente. A difendere Celio c’era Cicerone, animato da odio forte e antico verso di lei. Da testimone dell’accusa, quale avrebbe dovuto essere, riuscì a trasformarla in imputata principale. La dipinse come una quadrantaria (donna da quattro soldi) passibile del sospetto di aver avvelenato il marito e di avere addirittura rapporti incestuosi col fratello. L’esigenza era quella di screditarla per rendere vana la sua testimonianza. Ci riuscì. Rufo venne assolto. Clodia, che allora aveva trentotto anni, fu giudicata inqualificabile nella sua condotta di donna. Da quel momento in poi di lei non si sa più nulla.  Avrebbe continuato a vivere, però, attraverso le nugae e gli epigrammi che il suo giovane Catullo le aveva voluto regalare, ed è bello pensare che siano ancora lì assieme a brillare, perché degli amori resta ciò che di eterno riusciamo a raccontare.

 

 

Bibliografia essenziale:

Giovanna Garbarino – Lorenza Pasquariello, Vivamus. Cultura e letteratura latina, Paravia, 2022.

Eva Cantarella – Giulio Guidorizzi, Civitas. L’universo dei Romani, Einaudi, 2021.

Catullo, Carmina. Il libro delle poesie, Universale Economica Feltrinelli, 2014.

 



[1] Carmina, 51: Ille mi par esse deo videtur,/ ille, si fas est, superare divos,/ qui sedens adversus identidem te/ spectat et audit/ dulce ridentem, misero quod omnis/ eripit sensus mihi: nam simul te,/ Lesbia, aspexi, nihil est super mi/ <vocis in ore>/ lingua sed torpet, tenuis sub artus/ flamma demanat, sonitu suopte/ tintinant aures, gemina teguntur/ lumina nocte./ Otium, Catulle, tibi molestum est:/ otio exsultas nimiumque gestis:/ otium et reges prius et beatas/ perdidit urbes.[Strofa saffica minore]                                            

[2]Carmina, 85: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,/ rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis./ Soles occidere et redire possunt:/ nobis cum semel occidit brevis lux,/ nox est perpetua una dormienda./  Da mi basia mille, deinde centum,/ dein mille altera, dein secunda centum,/ deinde usque altera mille, deinde centum,/ Dein, cum milia multa fecerimus,/ conturbabimus illa, ne sciamus,/ aut ne quis malus invidere possit,/ cum tantum sciat esse basiorum. [Endecasillabi faleci]                               

[3] Carmina, 72: Dicebas quondam solum te nosse Catullum,/ Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem./ Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,/ sed pater ut gnatos diligit et generos./ Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,/ multo mi tamen es vilior et levior./«Qui potis est?» inquis. Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus. [Distici elegiaci]                   

[4] Carmina, 85: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio et excrucior. [Distici elegiaci]

[5]Carmina, 111: Multas per gentes et multa per aequora vectus,/ advenio has miseras, frater, ad inferias,/ ut te postremo donarem munere mortis/ et mutam nequiquam adloquęrer cinęrem,/ quandoquįdem fortună mihi tete abstűlit ipsum,/ heu miser indigne frater adempte mihi!/ Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum/ tradįta sunt tristi munere ad inferias,/ accįpe fraterno multum manantia fletu,/ atque in perpetuum, frater, ave atque vale. [Distici elegiaci]

[6] Carmina, 76: [...]Difficile est longum subito deponere amorem,/ difficile est, verum hoc qua lubet efficias:/ una salus haec est, hoc est tibi pervincendum,/ hoc facias, sive id non pote sive pote./ O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam/ extremam iam ipsa in morte tulistis opem,/ me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,/ eripite hanc pestem perniciemque mihi,/ quae mihi subrepens imos ut torpor in artus/ expulit ex omni pectore laetitias./ Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,/ aut, quod non potis est, esse pudica velit: /ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum./ O di, redite mi hoc pro pietate mea! [Distici elegiaci]

[7] Carmina, 11: [...] pauca nuntiate meae puellae/ non bona dicta./ cum suis vivat valeatque moechis,/ quos simul complexa tenet trecentos,/ nullum amans vere, sed identidem omnium ilia rumpens;/ nec meum respectet, ut ante, amorem,/ qui illius culpa cecidit velut prati/  ultimi flos, praetereunte postquam/ tactus aratrost. [Strofa saffica minore]

 

 

 





















[1] Carmina, 93: Nil nimium studio, Caesar, tibi velle placere/ nec scire utrum sis albus an ater homo. [Distici elegiaci]. La traduzione riportata è di Gioachino Chiarini.

 

[2] Carmina, 49: Disertissime Romuli nepotum,/ quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,/ quotque post aliis erunt in annis,/ gratias tibi maximas Catullus/ agit, pessimus omniurn poeta,/ tanto pessimus omnium poeta/ quanto tu optimus omnium patronus. [Endecasillabi faleci].

“O Marco Tullio, il più facondo dei nipoti di Romolo/ di quanti sono, di quanti furono/ e di quanti saranno negli anni futuri,/ di tutto cuore ti ringrazia Catullo,/ il peggiore di tutti i poeti,/ tanto peggiore di tutti i poeti/ quanto tu sei migliore avvocato di tutti.” [Trad. di Federico Della Corte]

 














[1] Gaio Valerio Catullo visse solo trent’anni. Nacque a Verona, secondo San Girolamo nell’87 a. C. e quindi sarebbe morto nel 57 a. C.; tuttavia in una sua poesia viene citato il secondo consolato di Pompeo che fu nel 55 a. C.; dunque è probabile sia nato nell’84 a. C. e morto nel 54 a. C.

 


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