FILI D'ERBA - Viola Bruno - Finché l'arbitro non fischia

 

Viola Bruno

“Ma a vecchiaia il lieto fine manca? Non è detto!

E se ci fosse davvero il paradiso?

Come ci meraviglieremmo.” (1)


Lily Farhadpour ed Esmail Mehrabi in una scena de Il mio giardino persiano



E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio. Vivevano a un isolato di distanza in Cedar Street, nella parte più vecchia della città. Olmi e bagolari e un solo acero cresciuti sul ciglio della strada e prati verdi che si stendevano dal marciapiede fino alle case a due piani. Era stata una giornata tiepida, ma di sera aveva rinfrescato. Dopo aver camminato sotto gli alberi, la donna svoltò all’altezza della casa di Louis. Quando Louis le aprì la porta, lei disse, Posso entrare a parlarti di una cosa? Sedettero in salotto. Vuoi qualcosa da bere? Un tè? No, grazie. Non so se mi fermerò abbastanza per berlo. Si guardò intorno. È graziosa la tua casa. Diane l’ha sempre tenuta bene. Un po’ ci provo anch’io. È ancora graziosa, disse lei. Erano anni che non ci venivo. Guardò fuori dalla finestra verso il cortile laterale, la notte si stava accomodando fuori e dentro la cucina, una luce illuminava il lavandino e il bancone. Tutto sembrava pulito e ordinato. Lui la stava guardando. Era una donna attraente, l’aveva sempre pensato. Quando era più giovane aveva i capelli scuri, ma ormai erano bianchi e li portava corti. Era ancora in forma, solo un po’ appesantita in vita e sui fianchi. Probabilmente ti stai chiedendo cosa ci faccio qui, disse lei. Be’, non penso tu sia venuta per dirmi che casa mia è graziosa. No. Volevo suggerirti una cosa. Eh? Sì. Una specie di proposta. Okay. Non di matrimonio, disse lei. Non pensavo neppure questo. Però c’entra con una specie di matrimonio. Ma ora non so se ci riesco. Ci sto ripensando. Fece una risatina. In un certo senso è un po’ come un matrimonio, non ti pare? Che cosa? L’indecisione. Può darsi. Sì. Insomma, adesso te lo dico. Dimmi, disse Louis. Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me. Cosa? In che senso? Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.” (2)


Così inizia Le nostre anime di notte, l’ultima opera di Kent Haruf, conclusa pochi giorni prima di lasciare questa terra, nel 2014. 

Nella forma, nel contenuto, questo breve romanzo somiglia ad un congedo, ad un saluto dal finestrino dell’auto che lo sta portando via da Holt, definitivamente.

È una storia delicata, crepuscolare, una passeggiata lenta lungo un viale alberato poco prima che venga notte.

Addie e Louis sono due anziani, vedovi, genitori di figli ormai indipendenti, in condizioni di salute ancora buone. È Addie ha prendere l’iniziativa, a proporre a Louis di unire le loro solitudini, in maniera tenera, delicata, per trascorrere il tempo che rimane da vivere in compagnia, condividendo la bellezza delle piccole cose della vita.

Eppure questo agli occhi dei loro prossimi e della comunità in cui vivono non viene accettato, anzi, viene ostacolato, impedito, in quanto considerato scandaloso, inopportuno, sconcio, quasi come se, giunti a quel punto delle loro vite, dovessero rimanere da soli, in attesa della morte, quasi come se l’amore fosse prerogativa esclusiva della gioventù. 

Quasi come se le anime subissero gli acciacchi del tempo e non avessero diritto di librarsi libere e unite nella notte.


E invece… 

“Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L’erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te”. (3)


La bellezza del mondo, le sue piccole meraviglie, è sempre lì, pronta ad essere colta: occorre solo aprire le braccia, avere coraggio.


“Che altro vuoi sapere?

Da dove vieni. Dove sei cresciuta. Com’eri da ragazza. Com’erano i tuoi genitori. Se hai fratelli e sorelle. Come hai conosciuto Carl. Che rapporti hai con tuo figlio. Come mai ti sei trasferita a Holt. Chi sono i tuoi amici. In cosa credi. Che partito voti.

Ci divertiremo un sacco a parlare, eh? disse lei. Anch’io voglio sapere tutto di te.

Non abbiamo fretta, disse lui.

No, prendiamoci il tempo che ci serve”. (4)


Le domande sono sempre quelle che ci ponevamo da ragazzini dinanzi ai primi amori, a testimoniare che nulla nel cuore cambia, che l’anima non invecchia.


Lo esprimeva bene Giuseppe Ungaretti nelle sue lettere a Bruna Bianco, vivendolo sulla propria pelle. 

Si incontrarono in Brasile nell’agosto del 1966. 78 anni lui, 26 lei. Ungaretti era lì per un ciclo di conferenze, lei una giovane avvocatessa appassionata di poesia. 

Si innamorarono subito ed iniziò una lunga corrispondenza, quasi 400 lettere in circa tre anni (5): “sono innamorato come un ragazzino, e non ho più da un secolo l’età”, “Via via che l’età avanza, […] l’intelligenza e la sensibilità continueranno a sembrare lucide, mature, acutissime, pronte come se non avesse che quarant’anni o venti, o fosse appena uscito d’adolescenza”.


Sei comparsa al portone

in un vestito rosso

per dirmi che sei fuoco

che consuma e riaccende.

Una spina mi ha punto

delle tue rose rosse

perché succhiassi al dito,

come già tuo, il mio sangue.


Percorremmo la strada

che lacera il rigoglio

della selvaggia altura,

ma già da molto tempo

sapevo che soffrendo con temeraria fede,

l'età per vincere non conta.


Era di lunedì,

per stringerci le mani

e parlare felici

non si trovò rifugio

che in un giardino triste

della città convulsa. (6)


Dunque, il coraggio di non arrendersi dinanzi agli impedimenti imposti dallo sguardo critico della società e neanche dinanzi a quelli imposti dagli effetti del tempo sul corpo, che purtroppo non sempre riesce a star dietro allo spirito.


Lo stesso coraggio che dimostra Giovanni Raboni nelle sue Canzonette mortali, quando, tra le molte poesie dedicate a Patrizia Valduga, scritte con il “cuore che dorme”, scrive anche questa, con il cuore coraggioso, quello “che non dorme”:


Il cuore che non dorme

dice al cuore che dorme: Abbi paura.

Ma io non sono il mio cuore, non ascolto

né do la sorte, so bene che mancarti,

non perderti, era l’ultima sventura. (7)


Dobbiamo pur dire che sia l’amore di Ungaretti per Bruna Bianco che quello di Raboni per Patrizia Valduga, contengono un timore comprensibile, quello di non poter reggere il peso di quei molti anni di differenza con le loro amate, salvo poi accordarsi - pur se a tratti soffrono di un insanabile tormento - nella convinzione assoluta che comunque sia valsa la pena vivere quell’amore di rinascita: 

“ma già da molto tempo/sapevo che soffrendo con temeraria fede/l'età per vincere non conta”, dice Ungaretti,  

“so bene che mancarti/non perderti/era l’ultima avventura”, concorda Raboni.


In realtà c’è un’altra storia che vi volevo raccontare, una storia che mi ha ricordato per certi versi Le nostre anime di notte di Haruf.


Nella mia città c’è un piccolo angolo di paradiso, un cinemino d’autrefois in cui spesso scopro delle piccole perle che mi toccano l’anima, m’illuminano gli occhi, mi lasciano sospesa nei pensieri ben oltre i titoli di coda.

L’ultima di queste è Il mio giardino persiano, film in corsa per l’Orso d’Oro di Berlino nel 2024, ma mai proiettato in Iran, che ha addirittura tolto i passaporti ai due registi, i coniugi Maryam Moghaddam e Behtash Saneeha, impedendo loro di essere presenti alla manifestazione.


I registi sapevano che raccontare questa storia, innocua nel resto del mondo, avrebbe significato per loro correre il rischio di non poter più lavorare, addirittura di poter finire in carcere. È un film politico, una sfida alla censura, ma soprattutto un inno alla voglia di vivere. 


Dovettero effettuare molte riprese in segreto: “in questa situazione deplorevole stiamo ancora cercando di raccontare la realtà della società iraniana nei nostri film, una realtà che di solito si perde sotto i tanti strati di censura. Violare alcune di queste limitazioni è una scelta che stiamo facendo di proposito, e speriamo di essere in grado di raccontare il problema delle donne iraniane”.

L’unico momento del film esplicitamente militante è quando la protagonista, Mahin, si oppone all'arresto da parte della polizia morale di una ragazza rea di non aver indossato correttamente il velo. “Fatti sentire”, dice Mahin alla giovane dopo averla salvata, “più tu accetti il loro potere, più loro ti schiacceranno”.


Maryam Moghaddam e Behtash Saneeha, già noti per la loro abilità di raccontare storie delicate e potenti, danno vita anche in questo caso ad un’opera in cui il dramma si intreccia con la poesia visiva. Il giardino persiano del titolo non è solo un luogo fisico, ma un simbolo di speranza, rinascita e bellezza che resiste al tempo e alle difficoltà.


Mahin (interpretata da Lily Farhadpour), è una donna di mezza età, vedova da più di trent’anni, che vive a Teheran in una bella casa con giardino. 

Vive di fatto in estrema solitudine, non riceve ospiti, salvo un gruppo di amiche con le quali festeggia il compleanno, una volta all’anno. Passa l’intera notte davanti alla televisione, emozionandosi dinanzi ai film d’amore, senza riuscire a prendere sonno finché non albeggia e per questo poi rimane a letto l’intera mattina. Ogni giorno uguale al precedente.


Stanca di quella vita, un giorno decide di uscire con l’intenzione di incontrare un uomo.

E così sarà. 

In un ristorante dove entrambi pranzano da soli, incontrerà Faramarz (interpretato da Esmail Mehrabi), tassista divorziato, e lo inviterà a casa sua, gli offrirà del vino rosso prodotto illegalmente in casa prima della Rivoluzione khomenista del 1979, cenerà con lui nel bellissimo giardino, ballerà con lui con la musica a tutto volume, gli preparerà una torta (da qui il titolo internazionale del film e traduzione letterale dell’originale, My favourite cake) e lo inviterà persino a restare per la notte, sfidando gli sguardi delatori dei vicini e il rischio di un'irruzione della polizia morale.


Si rimane con gli occhi incollati allo schermo, incantati dalla bellezza dell’ordinario, felici di quella felicità inaspettata, assoluta, concentrata, perfetta, che i due protagonisti si trovano a vivere all’improvviso, come se la vita finalmente li avesse ricompensati per la solitudine e le privazioni vissute fino a quel momento. Si rimane estasiasti dal tatto e dalla delicatezza con cui i registi hanno voluto mostrare questo tardivo e fulmineo amore.

Ed è qui che mi voglio fermare, non è importante come andrà a finire il film, non ve lo dirò oggi, lo dovrete vedere. 


Finito, già finito l’incantato tempo dei rami in fiore?/ Come quando sul più bello del ricamo finisce il filo da ricamo”, incalzerebbe la Lamarque.


Già, preferisco cristallizzare quell’immagine meravigliosa che ho posto in apertura, la bellezza di quella familiarità tra i due protagonisti, nata in poche ore di conoscenza, come se la vita li avesse attesi con quel dono inaspettato tra le mani, finalmente da scartare. Voglio mettere in luce la speranza che non deve mai venir meno, l’importanza di afferrare il momento, perché potrebbe essere l’unico, l’ultimo. E proprio per questo vale sempre la pena di rischiare, di sfidare le regole. Coraggio, quel coraggio di cui vi ho parlato fin dall’inizio, quello che occorre per poter toccare il cielo, anche solo per una notte.


Solo ho amica la notte.

Sempre potrò trascorrere con essa

d'attimo in attimo, non ore vane;

ma tempo cui il mio palpito trasmetto

come m'aggrada, senza mai

distrarmene.


Avviene quando sento,

mentre riprende a distaccarsi da ombre,

La speranza immutabile

In me che fuoco nuovamente scova

e nel silenzio restituendo va,

a gesti tuoi terreni

talmente amati che immortali parvero,

Luce.

                                             Ungà (8)


“La partita finisce quando l'arbitro fischia”, avrebbe detto un amato centrocampista e allenatore serbo di diversi anni fa, Vujadin Boškov, solito dispensare aforismi ironici e lapalissiani (ma in realtà grandi, eterne verità).


Finché l’arbitro non fischia, dunque, qualunque cosa accada, è tempo di vivere, e soprattutto si è in tempo per amare:

Il mio giardino persiano_clip (9)






Riferimenti:

1.  Vivian Lamarque, da Baobab in L’amore da Vecchia, Lo Specchio – Mondadori, 2022
2. Incipit di Le nostre anime di notte, Kent Haruf, NNE, 2017. Dal libro è stato tratto anche il film omonimo con Robert Radford e Jane Fionda (2017, regia di Ritesh Batra)
3. Da Le nostre anime di notte, Kent Haruf, NNE, 2017
4.  Da Le nostre anime di notte, Kent Haruf, NNE, 2017
5. Le lettere di Ungaretti sono state pubblicate, solo nel 2017, in Lettere a Bruna (Mondadori), mentre il loro dialogo poetico è contenuto in “Dialogo”, ultima parte dell’opera omnia di Ungaretti, Vita di Un uomo (Mondadori, 1969)
6. Giuseppe Ungaretti, 12 settembre 1966, da “Dialogo”, in Vita di un uomo (Mondadori 1966)
7.  Giovanni Raboni, da Canzonette mortali, 1986
8.  Giuseppe Ungaretti, Segreto del poeta, da Dialogo in Vita di un uomo (Mondadori, 1969), in cui si firmava “Ungà”
9.  Una scena meravigliosa da Il mio giardino persiano





Commenti

  1. Grazie a te, Viola. Delicato e commovente. Nessuna vergogna davanti alla commozione d'amore.

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    1. Nessuna vergogna, esatto. Grazie di cuore, Maria Pia 💜

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