PLANCTON - Silvia Longo - Breve intermezzo musicale
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Silvia Longo |
Did you write the book of love? – Hai scritto tu il libro dell’amore?
and do you have faith in God above – e credi in Dio
If the Bible tells you so – se la Bibbia ti dice così
Now, do you believe in rock ‘n’ roll? – e credi nel rock ‘n’ roll?
Can music save your mortal soul? – che la musica possa salvare la tua anima mortale?
And can you teach me how to dance real slow? – E puoi insegnarmi a ballare molto lentamente?
Well, I know that you’re in love with him – Be’, so che sei innamorata di lui
‘Cause I saw you dancin’ in the gym – perché ti ho visto ballare in palestra
You both kicked off your shoes – Entrambi vi siete tolti le scarpe
Man, I dig those rhythm and blues – e ora ci do dentro col rhythm and blues
I was a lonely teenage broncin’ buck – Ero un adolescente solitario e affannato
With a pink carnation and a pickup truck – con un garofano rosa e un camioncino
But I knew I was out of luck – Ma sapevo che ero sfortunato
The day the music died – il giorno in cui la musica morì
American Pie, Don McLean - 1971
Scrivo queste righe nel giorno anniversario di David Bowie, del suo sfolgorante transito da luce a Luce. Della sua bella morte, come la intendevano gli antichi, occorsa il 10 gennaio del 2016, anno luttuoso per la musica. Natalie Cole, Keith Emerson, Gianmaria Testa e Giorgio Calabrese, Leonard Cohen, Prince, Greg Lake, George Michael, per citare alcuni tra gli artisti che lasciarono questo ciclo di vita.
Quando Bowie diventò la fulgida Stella Nera, nel suo cielo capricorno, seppi che non solo il musicista era entrato nell’immortalità, ma uno degli artisti più preziosi caduti sulla Terra. Per sua grazia e a maggior gloria dell’Umanità, come chi redima e curi ogni fragilità, della sua stessa fine materiale - deliberatamente e per assonanza con la sua natura - egli ha fatto arte. Un allestimento perfetto, un insegnamento di dignità e bellezza. Scrivere, creare, inventarsi sino all’ultimo respiro; sino a che la pagina non finisce, e si deve dunque cadere e continuare oltre il foglio stesso. I’ve got game/ I see right, so wide, so open-hearted pain /
I want eagles in my daydreams / diamonds in my eyes / (I’m a blackstar, I’m a blackstar)
(traduzione: sono pronto / Vedo il dolore in modo così ampio e chiaro / Voglio aquile nei miei sogni a occhi aperti, / diamanti nei miei occhi / (Sono una Stella Nera, sono una Stella Nera).
Quando un musicista muore, mi pare anche la musica muoia, che il tempo rallenti sino a fermarsi, che io resti priva di grazia tonale. Esclusa da quello stato di perfetta accordatura che dal diapason ti arriva al cuore (a livello etimologico, esiste una intima connessione tra le parole cuore e corda, e l’idea di vibrazione e movimento è intrinseca a entrambe). Priva del movente e della misura universale che anche Dante ha cantato: l’amor che muove il Sole e l’altre stelle. Dio come armonizzatore cosmico, che crea, diffonde e perpetua la coesione celeste, che imprime ai pianeti il loro moto di rotazione e rivoluzione, perché Musica è anche questo. Mettere in circolo un messaggio, tradizionale o di rottura. Trasformare il suono in rivelazione. Trasportare parole e note fuori dal foglio, oltre il rigo, e trasmetterle per vibrazione nell’etere. Spingersi a toccare gli animi passando attraverso i sensi. Le nostre orecchie sono filtri sensibili e stilnovisti che, sfiorati nel modo giusto da melodie e testi, permettono loro di raggiungerci al centro esatto dell’animo. Ancora Dante, canto II del Purgatorio, il canto di Casella:
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Sono partita da American Pie, scritta da Don McLean nel 1971. Per molti, la canzone che racconta il frangersi di una generazione sugli scogli del reale. La fine del Sogno Americano, certo. Un testo – a mio parere – bello nella sua interezza, del quale alcuni versi custodisco e mi canto a bassa voce, come un mantra: But I knew I was out of luck / The day the music died (tradotti liberamente: ma ebbi coscienza di essere caduto in disgrazia / il giorno che la musica morì).
La musica è morta infinite volte, da che esiste, senza morire davvero. Perché qualcuno ne ha sempre raccolto le spoglie per riportarle al palpito, riproducendone note e parole. Basta un disco, o una traccia audio. A esser bravi, una chitarra, un piano, un filo di voce. E la memoria di un’intenzione che vada oltre la linea di canto.
Eppure ho sentito di essere caduta in disgrazia ogni volta che un musicista è morto. È accaduto di recente, con Paolo Benvegnù. Che il mondo mi sembrasse d’un tratto vuoto e freddo, sebbene grata per quanto egli ci abbia donato, come artista e come persona, con quella meraviglia di sensibilità, con una poesia capace di cantare tanto l’amore e la tenerezza quanto il perfetto disincanto e la rabbia, universalizzando e soggettivizzando. Di (non) spiegare il mistero del nostro stare:
E non chiedermi nulla / Perché non saprei rispondere / Perché tutto è un mistero da non rivelare / Perché tutto ci parla senza farsi vedere.
La musica mi è morta per la prima volta quando John Lennon fu assassinato, e no, Mark Chapman io non l’ho mai perdonato, non mi è nemmeno passato per la testa di provarci. Avevo quindici anni, era appena uscito Double Fantasy, ma insieme a Woman e (Just like) Starting over, era Imagine che continuavo a cantare. Vivevo il mio primo amore, tormentato e romantico come ogni primo amore che si rispetti (sì, i primi amori vanno rispettati). E, nel nostro immaginario di ragazzini casa-scuola-chiesa, Imagine spodestava l’inno scritto da San Paolo, che i preti insistevano a farci imparare a memoria. Era un atto di ribellione, il nostro. Credere di saper amare e rigettare gli stilemi imposti, in merito all’amore.
Il mio lui e io, avevamo un amico in comune. Un ragazzo fin troppo paziente, sul cui diario il mio lui e io ci prendevamo licenza di scrivere, roba da matti, come fosse stato nostro. Così, un giorno, il mio lui vi scrisse: Ascolto Imagine, e non posso fare a meno di pensare a Silvia. Il giorno dopo lessi quell’appunto e lasciai a mia volta una traccia, poche righe che speravo lui avrebbe letto la sera stessa. Il carteggio per interposta persona seguitò per qualche tempo. L’amico comune, premuroso e sollecito, non mancò di mettere a disposizione il proprio diario, squadernato in bella vista sulla scrivania. Fino a quando, sommessamente, ci fece notare che magari tutte quelle cose avremmo potuto dircele in modo diretto, il mio lui e io.
Aneddoto di scarsa rilevanza, questo, se non fosse per la musica. Che procede strettamente connessa ai ricordi, buoni o tristi che siano: che poi alla fine sono buoni tutti, in quanto testimoni di un’emozione, del transito di qualcuno nelle nostre vite, di un’epoca che, senza una colonna sonora che la commenti, nel mentre, e che in seguito la rievochi, mancherebbe di qualcosa. Allo stesso modo, scordarsi è, insieme, perdere memoria e accordatura.
E se Pitagora fu il primo a intuire, mediante lo studio di musica e matematica, come tutto in natura sia regolato da proporzioni armoniche precise e misurabili in ottave, Leonard Cohen parla di un accordo segreto suonato da David e gradito al Signore, e la teoria filosofica della Musica delle Sfere è giunta sino a noi, passando anche attraverso l’utilizzo della atonalità (con Schoenberg nasce ufficialmente la dodecafonia, in coda alla scia luminosa di Wagner, Debussy, Stravinskij, Busoni…).
Eppure, per quanto tecnicamente la dodecafonia rappresenti, storicamente, il momento di rottura delle leggi armoniche tramandate, a me pare che il passaggio al sistema tonale indichi soprattutto uno spostamento del focus nella percezione di sé e del contesto, del mondo intorno e del gusto personale. La possibilità per musicisti e fruitori di ampliare il letto in cui scorre il fiume della conoscenza e della sensibilità individuale.
Torno a Bowie, per me maestro di vita, oltre che artista del cuore. Colui che mi ha insegnato quanto lieve può apparire, all’esterno, una trasformazione interiore, il passaggio a un altro livello di consapevolezza del sé. Trucco, cambi di abito e lustrini non sono che la rappresentazione visibile del lavoro di Fenice. Che da se stessa muore e rinasce. E che ogni volta si esprime con nuovi suoni e sistemi poetici.
Ho scelto di intendere questo mio testo come un intermezzo musicale, senza alcuna presunzione: non possiedo le competenze di un addetto ai lavori, ma solo quelle dettate da intuito e passione.
La Treccani definisce così l’intermezzo: Componimento o serie di componimenti poetici, che segna il passaggio, contenutistico o stilistico, fra due opere o parti di un’opera.
Interrégni, insomma. Viviamo anche di questo. Di musica del passato e di musica del presente, magari senza riuscire a capirla a pieno, mentre la ascoltiamo. In attesa della musica che verrà.
“La musica mi è morta”
RispondiEliminaLa tua scrittura è fluida, appassionata e appassionante.
Anni incredibili per chi li ha vissuti. Indimenticabili, tutti. Grazie a Dio, ci sono penne come la tua che non li faranno morire mai.
Grazie, Silvia
Ti ringrazio davvero di cuore. Accade con anime come la tua che scrivere e cercare di comunicare acquistino maggior senso. Perché ci si riconosce. 🙏🏼
EliminaE stavolta sei tu il tedoforo che porta la fiamma e la consegna a chi ascolta la tua parola, che è già musica
RispondiEliminaPer noi, la musica conta tanto. E la sincerità. Grazie, Daniela mia.
EliminaCom' è vero che quando muore un musicista che amiamo ci sembra che sia morta anche la musica, e ci sentiamo anche noi privati delle note che ( sembra) non saranno mai più
RispondiEliminaCara Anna, è un momento di buio e silenzio, quello di cui parli. Il Sabato Santo del cuore. Ti abbraccio, grazie per essere passata <3
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