MUDDICHI - Stefania Giammillaro – “U Signuri runa u pani a cu nun avi i rienti”

 

Stefania Giammillaro

U Signuri runa u pani a cu nun avi i rienti” letteralmente: “il Signore dà il pane a chi non ha i denti”.

“Pane” simbolo-Giano bifronte del senso di fame e dell'antagonista senso di sazietà. Se ci pensate, quando si ha “fame” non si cerca istintivamente una mela o una barretta proteica (falso chi nega), ma si ha smania di carboidrati e il più delle volte trattasi proprio di un pezzo di pane, magari accompagnato da un mossiceddu ri furmaggiu o ri cioccolatta. Al contempo, non si contano le volte in cui mia nonna, per incoraggiarmi l’appetito, suggeriva: “mangia senza pane” cosicché la sazietà veniva posticipata e lo spazio nello stomaco automaticamente dilatato per accogliere container interi e colmi di ogni prelibatezza da lei preparata, tanto si sa che parallela ad una cultura accademica c’è una scienza “di strada” fatta di esperienza di vita, di saggezza popolare e del Vangelo secondo me nanna.

Quindi, se il Signore dà il pane a chi non ha i denti, non può che rendersi oltremodo generoso nei confronti di chi non può (o non vuole), tuttavia, apprezzare quel dono, “il dono” che elimina ogni senso di fame, sradica a monte la possibilità di morire di inedia pur non esistendo ab origine neanche il rischio, trattandosi di soggetto privo di denti, privo, quindi, della possibilità di cibarsi di ciò che è pane e, pertanto, secondo la nota allegoria di derivazione cristiano-cattolica, di ciò che “è vita” e “dà vita”, che spezzato diventa metafora di condivisione alla tavola del Padre atteso prima di essere tradito dalla vita stessa.

Quel giorno avevano chiuso agosto

con i limoni sugli occhi

 

non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton

 

giocavo a pallone

con la maglia del portiere

 

al centro del grande zabaione

dove Napoli galleggia

 

nella sala d’attesa

tolsero l’acqua al pesce rosso

 

il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse

ci caricarono il buio alla nuca e spararono

 

era un elefante con le gambe secche

e non ci volle molto a cadere

 

era l’ultima via Santa Lucia

che se ne andava timida dal golfo

 

hanno visto alzarsi in volo uno stormo

dalla piazza fredda del letto di mia madre

 

hanno tolto l’uomo

hanno sradicato le sue mani dalle mie

 

quando tornerà  sarà davanti agli occhi di Antonio

e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha

 

quando tornerà non sarà buio il corridoio

e siederà a tavola e dirà: «perché avete aspettato tanto…

potevate cominciare»

(a mio padre che sarà tra forbici e stelle – di Valerio Grutt da Una città chiamata le sei di mattina – Antologia “Poesie dell’Italia Contemporanea 1971 – 2021 a cura di Tommaso Di Dio, Il Saggiatore, 2023).


 “U Signuri runa u pani a cu nun avi i rienti” rievoca anche un senso di amara predestinazione, un monito ancestrale che va oltre e ben più a fondo del peccato originale e si fa condanna sotto pelle dietro ogni malefatta “Viri ddocu, chistu u Signuri fu!” (Vedi! E’ stato il Signore!). Una punizione per aver errato nella vita che cagiona, ad esempio, l’inciampare in uno scalino.

Così all’Altissimo viene ascritto il potere di stabilire “le sorti della sorte”, quella mavara soprattutto, che sebbene Sua acerrima nemica, non ha segreti per Lui, perché da Lui governata e piegata sotto forma di “marchio”, di “sfiga”, di "croce" da tramandare di generazione in generazione e da cui non ci si può sottrarre e che testimonia come non si nasce nuovi, ma il primo vagito si inanella in una catena già stretta tra limiti e pregiudizi che soffocano la preda e la presa.

Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente sospirando:

- Già lo sapevi … Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale!

Fece con una mano le corna e le agitò in aria.

- Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene.

A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò.

- Sciocco, che c’è da ridere? – gli disse il padre, levando su dal petto il testone raso, sanguigno. – E’ destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua. Calvario.”

(estratto da  L’Esclusa di Luigi Pirandello romanzo d’esordio che compare per la prima volta a puntate sulla “Tribuna” di Roma dal 29 giugno al 16 agosto del 1901).

Siamo terra bagnata dal mare che non ha confini se non in un cielo senza confini, eppure questa elezione divina si ammanta come scure invincibile, che protegge il popolo nella scelta di una non-libertà, che dalla superstizione approda a tracciare l’inconoscibile.

L’ignoto non può essere veramente ignoto, il senso di vuoto non ha cittadinanza, è l’unico al quale non si chiede: “manciasti oggi?” Il futuro è già segnato nelle storie degli avi e nei loro peccati e, possibilmente, nelle ‘nciurie che li descrivevano: ‘u zoppu, ‘u sordu, ‘a iaddina, ‘a mprisusa.

Homo faber fortunae suae o più correttamente Faber est suae quisque fortunae è locuzione latina senza dimora nella arida e brulla Sicilia, dove se nasci verme ci si aspetta tu faccia la fine del verme:

“Stava a pancia sotto, il collo piegato di lato, un braccio attorno alla testa, l’altro abbandonato lungo il fianco. Nei pochi centimetri di terra che riusciva a vedere, limitati dall’arco che il suo braccio faceva, c’erano un verme e un filo d’erba. Il verme, di quelli bianchi e molli che si trovano sotto le pietre, si era messo in mente di arrampicarsi sul filo d’erba. Prima alzava la testina come a misurare la lunghezza del filo e il modo migliore di superare le difficoltà, poi, con le zampette più fini di capelli, pigliava ad attaccarsi. Per un poco ce la faceva, ma quando era arrivato a mezza strada, il filo d’erba lentamente si piegava. Il verme non se ne dava per sentito, continuava a faticare la sua salita. Tutt’insieme però il filo d’erba finiva di piegarsi, senza rompersi, e il verme, dopo aver cercato di restare in equilibrio, cadeva a terra malamente. Si torceva e si torceva, ma una volta che ripigliava a strisciare, al filo d’erba tornava. Era una cosa da uscire pazzi, a Vito veniva desiderio di schiacciarlo, ma non poteva muoversi, schiacciato com’era lui stesso contro il terreno dalle due canne di lupara che sulle spalle gli stavano appoggiate. «Come ti catamìni, sei morto» gli aveva detto l’uomo infaccialato, del quale, a momenti, riusciva a vedere gli stivali. Il sole batteva. Da un pezzo Vito aveva finito di domandarsi quando quello si sarebbe deciso a sparare. Ad un certo punto si persuase che pure l’uomo in piedi dietro di lui stava a taliàre il verme. «Cadi, cadi, per carità» cominciò a pregare col pensiero e forse il verme l’intese, perché a metà si voltò  a taliàrlo come a dirgli che se ne poteva stare calmo, ché tanto pure questa volta sarebbe stata come tutte le altre. Invece come le altre non fu. Il filo non si piegava , pareva diventato di pietra, e Vito aveva voglia di respirare forte, il filo d’erba non si muoveva. Tranquillamente il verme arrivò fino alla cima e anzi continuò a salire per un poco ancora. «Questa volta ce l’ha fatta» disse l’uomo col fucile e sparò”. (estratto da Il corso delle cose, di Andrea Camilleri, Sellerio ed. 2015).

Insomma, capita, a volte, tu possa riuscire vincitore anche da verme, ma non dirlo ad un siciliano! Ca comu ti catamìni sei morto.

 

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