LADRO DI STELLE - Marco Brogi - Franco Fanigliulo, lo chansonnier contadino
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Marco Brogi |
Lettera a
un dimenticato geniale
Caro Franco, scrivo queste righe nell’illusione di farti cambiare indirizzo: da via dei Dimenticati a via del Riconoscimento. Lo so che non servirà a molto, ma perché si devono fare solo le cose che siamo certi essere utili? Niente è più utile della inutilità della poesia e dell’arte. E tu di arte te ne intendi, come te ne intendi di insalata, di pomodori, di ulivi, di galline, di capre, che chiamavi tutte con lo stesso nome, perché così quando ne chiamavi una venivano tutte. Marinaio, poi contadino nell’entroterra di La Spezia, la tua città natale, da sempre artista in una terra di artisti, la Liguria scabra e essenziale di Sbarbaro, Montale e di quel viandante inquieto sui sentieri della Lunigiana che di nome fa Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, poeta, mercante di sogni e di azzurro come te e a te vicino nella geografia dei sentimenti, nel senso del tragico, nel descrivere la nostra pochezza di fronte all’infinito, nel fare fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, nel tentare di strappare una risata alla vita con uno sberleffo e qualche bicchiere di vino.
Mi piace vivere alla grande, cantasti a Sanremo in un ormai lontano 1979, “girare tra le favole in mutande” e qualcuno si accorse di te, del tuo genio scanzonato e disperato. Interviste, ospitate in tv, ma poi di nuovo nell’oblio. Silenzio fino al 12 gennaio 1989, quando un ictus (come avevi previsto nella stessa A me mi piace vivere alla grande: ‘Ho un nano nel cervello, un ictus cerebrale, bagni di candeggina voglio sentirmi uguale, uguale a un gatto rosa per essere sporcato’) ti portò in un altrove a soli 45 anni, risparmiandoti-amara consolazione- il tempo della musica cieca, omologata, starnazzante. Queste righe, caro Franco (Fani per gli amici) te le devo, te le devo perché se ho avuto e ancora ho la faccia di gomma di leggere poesie in pubblico, è grazie a te. Ti ho rubato briciole di teatralità, come agitare le mani in aria quasi a disegnarle, le parole che escono dall’interno più interno, prima che ancora dalla bocca, o quel accelerare e rallentare continuamente nel dire. Così faceva mia madre: sillabe che andavano a tutta, poi piano. E infine mute. Lo sentivi, di avere poco tempo a disposizione e per questo, forse, parlavi velocemente, avevi fretta di farti capire, la fretta di chi sa di avere una scadenza. L’urgenza di arrivare al muscolo cardiaco di quelli che come te si sono ritrovati su questa crosta di terra. Nei tuoi testi, sappilo, soprattutto quelli del primo album, Mi ero scordato di me, ci sono versi degni di Brel e Leo Ferrè e quindi non hanno niente da invidiare alla poesia.
Come in Dove, un brano inedito:
Quando la luna sale/ non puoi salvarti
dall’eternità/
oppure in Domani:
Dare agli altri quello che non hai/ camminare
guardandoti intorno/, fuggire per quello che sei/ farti avanti in momenti
migliori/nasconderti poi sotto discorsi seri e pregare che domani sia come
oggi/e come oggi domani sarà…
oppure in Stella di mare
Là in fondo alla strada/ c'è un
destino che dorme e sulla coda una stella/ che non vuol riposare/ il suo nome è
un segreto, come la stella del mare/.
Non si stancano gli uccelli di
volare lontano/ mentre tuona il fucile invidioso di loro/ chi lo fermerà mai un
destino nel volo?
Caro
Franco, Cristo continua a non rispondere al telefono:
‘Pronto e non c’è/ sarà, sarà arretrato di
guai/ non ha tempo per me’ (Cristo
però), l’insalata del tuo orto se la sono mangiata gli anni e i trapper, e
chissà che sogni fa, il cuscino che portavi nella valigia per sentirti a casa
anche fuori casa, e chissà chi se lo ricorda, il tuo folle disincanto (‘ho
fatto tante serate a Milano, non c’era nessuno. Io c’ero’). Ma le tue poesie in musica restano. Chiedetelo agli ulivi se hai mai smesso di
essere te.
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