LA CUCINA VIGLIACCA - Stefano Tarquini - Editing in poesia: è possibile?
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Stefano Tarquini |
L’editing in poesia è una questione spinosa,
divisiva, ma lo “strapotere” degli editor nella narrativa, ormai considerati al
pari degli autori stessi, se non in qualche caso più importanti, mi ha spinto a
sdoganare tale figura anche in poesia. Quindi, come si muove un editor di
poesia? Che tipo di figura è? È una sorta di correttore di bozze in cerca di
refusi? È un poeta minore che lavora su testi altrui per secondi fini? È un
lettore appassionato che brama frequentare poete e poeti? Assolutamente. Un editor
non è nulla di tutto questo.
Ho cominciato a praticare la cosa quando
lavoravo con la casa editrice STC. Nella sua fase embrionale, infatti, era una
rivista che si occupava esclusivamente di racconti. Appena sono entrato, ho
inserito la sezione poesia e, una volta al mese, editavo una minisilloge. Tra
quelle che ricordo con più interesse sono sicuramente “Altruismo” di Fosca Navarra, “Precipitare” di Erika Di Felice e “II giorno di vetro soffiato” di Michelangelo Giuffrida.
Intanto in forma privata e a carattere giornaliero, lavoravo sui testi di tante
amiche e amici poeti anche solo per il gusto di praticare poesia.
In questa fase mi sono limitato a sviluppare un
approccio preciso. In antropologia si chiamerebbe trickster, ovvero
colui o colei che, tramite quello che potremmo definire un tiro mancino, mette
nei guai il protagonista, in questo caso l’autore.
Di fronte a un testo poetico faccio una cosa
semplice, mettendo in discussione sia me stesso che la/il poeta: cerco di fare
la domanda giusta. E la domanda giusta molto spesso è “sicura/o che il testo
funzioni?”
Quest’unica domanda ne contiene molte altre
subordinate: È incalzante il ritmo? È troppo scontata questa rima?
L’immagine ha davvero la potenza che vorresti
sprigionare? La dinamica del componimento respira? Ci sono cali di tensione?
Da questo, appare chiara una cosa: l’editing si
fa insieme. Uno di fronte all’altra/o. Si legge a voce alta. Poi si rilegge.
Tutto questo per portare il testo ad un livello di bellezza tale, ad un livello
di ritmo/suono tale, da farlo percepire vibrante, mai scontato, quasi perfetto.
Dico quasi, perché la perfezione in poesia è aria, stop.
Quindi ricapitoliamo: l’editor non fa altro che
creare interrogativi, mettere in discussione ogni singola poesia, ogni singolo
verso, ogni singola parola. Scompone gli elementi in altri più piccoli, li
dispone nuovamente di fronte all’ispirazione dell’autore. Cerca di penetrare la
struttura arteriosa delle parole per sprigionarne la forza nucleare. L’editor
impasta, solve et coagula, lotta insieme all’autore fin quando solo
quest’ultimo (e non altri) sia totalmente affascinato dal risultato scaturito.
L’ultima parola infatti, resta sempre la sua.
Intanto arrivavano proposte di lavoro, le
sillogi vere e proprie. Ho avuto la fortuna di lavorare a libri magnifici. Ne
ricordo solo alcuni in particolare: “Piccola
stregheria” di Giovanna Cinieri, edizioni STC novembre 2024, “Rancuore” di Michelangelo Giuffrida,
in arte Khan Klynski, Mezzelane editore gennaio 2025 e “V” di Michele Piramide, Giulio
Perrone editore, collana Affiori novembre 2024. Sono testi che raccomando non
solo perché c’ho messo le mani, ma perché quando mi sono arrivati già erano
opere complete e interessanti.
Avete delle curiosità o delle obiezioni?
Vediamole insieme. Mi si obietterà, Baudelaire non aveva un editor! Come
neanche Rimbaud, Ungaretti, Ginsberg, Montale, Alda Merini, Aldo Nove,
Sanguineti o De Angelis. Eppure questi nomi sono tra i fondamenti della storia
della poesia moderna e contemporanea. Siete sicuri? Avete mai considerato i
loro rapporti epistolari? Ma anche le frequentazioni con altri poete e poeti.
È vero, nessuna delle loro sillogi è stata
pubblicata in seguito alla revisione di un vero e proprio editor, ma ci sono
due ordini di considerazioni da fare.
Il primo è di carattere socio-culturale. In
questo preciso momento storico, scrivere è facile. Scrivere poesie è
addirittura facilissimo: chi ha il diritto di stabilire se un testo sia o non
sia poesia? Chi è lo sceriffo della giurisdizione poetica? I critici, il
mercato, le testate cartacee e/o online? Ognuno di noi ha partecipato ad eventi
(talvolta anche prestigiosi) in cui almeno uno fra i testi proposti tutto
sembrava fuorché poesia. Questo perché la stesura di testi “poetici” è
accessibile a chiunque. Oggi abbiamo tempo, oggi abbiamo spazio, il
moltiplicarsi delle riviste online ha generato vetrine inimmaginabili fino a
poco tempo fa. E, si sa, la possibilità di esposizione genera prodotti e, di
conseguenza, produttori. La moltiplicazione dei poeti genera confusione,
disordina le coordinate. Molti fra i poeti del passato hanno avuto forme
primordiali di editor: si chiamavano amici, curatori, case editrici. Basti
pensare alla corrispondenza di Antonin Artaud, uno dei poeti più irregolari che
il ‘900 ci ha donato, con Jacques Rivière. Le lettere all’editore di Bukowski e
Fante, poesia pura! In una dimensione più ibrida si pensi allo stretto legame
fra Burroughs e Ginsberg: quest’ultimo è stato un sostegno fondamentale nella
stesura definitiva de “Il pasto nudo”,
tanto da coniarne egli stesso il titolo.
La seconda riflessione è di carattere puramente
autoriale. Oggi non si è poeti o, nella maggior parte dei casi, non lo si è
completamente. Nella misura in cui quasi tutti sono dopolavoristi, dedicano
cioè alla poesia il tempo lasciato libero dalle attività pro-pagnotta. In
passato la prolungata esposizione dell’autore alla propria materia poetica
poteva essere sufficiente per scatenare quella devastante battaglia interiore
che conduce alla scarnificazione e alla successiva ricostruzione del testo
poetico. Si sopravviveva a se stessi per scrivere e si scriveva per
sopravvivere a se stessi. Oggi il tempo e le energie che possiamo riservare
alla nostra galassia poetica sono indubbiamente minori. Spesso, mi duole
constatarlo, non c’è neanche una vera e propria galassia poetica. Non
fraintendetemi: non mi riferisco alla qualità intrinseca dei testi, ma alla
visione più generale di un poeta che si colloca all’interno di un sistema più
grande, già complesso rispetto al semplice circuito dei festival e delle presentazioni.
Per questi motivi credo che la funzione
dell’editor in poesia possa essere una proposta quanto meno affascinante. Per
aiutare l’autore a scomporsi, a ricostruirsi, per ricucirsi la testa sulle
spalle e poi ricollocarsi. L’editor non scrive per l’autore, l’editor non ha
risposte. Ha solo domande. Del resto, in narrativa, è una figura già accettata
da tempo, tanto da risultare, a volte, una discriminante decisiva per il
successo di un romanzo.
Proviamo ad immaginare il rapporto con l’editor
come un confronto fra noi e quelle componenti di noi stessi che non conosciamo.
Proviamo a considerarlo una spezia per rendere ancora più saporiti i nostri
piatti poetici. Proviamo, in definitiva, a non considerare l’editor qualcuno
che vuole appropriarsi della nostra poetica ma che, piuttosto, vuole che noi ce
ne riappropriamo in modo più consapevole e profondo.
Da musicista traccio spesso un parallelo con la
figura del produttore musicale. Dietro ogni disco c’è qualcuno che si mette al
servizio dei musicisti per far sì che le idee coincidano col risultato finale.
La percentuale in cui produttore artistico ed autore coincidono è davvero
minima.
Per quanto mi riguarda la risposta alla domanda
“l’editor in poesia è possibile?” È una sola, ed è chiara, perentoria e
risolutrice. La risposta è dipende.
Dipende da quanto si è pronti a mettersi in
gioco. Dipende da quanto si è pronti ad uscire dal proprio circoletto di
adulatori. Dipende da quanta massa tumorale di narcisismo si è disposti a
sacrificare. Dipende se vuoi abbattere l’egomostro che hai dentro.
Quindi, forse, sotto sotto, la mia risposta è:
in poesia oggi l’editor non è solamente possibile. È necessario!
Mettetemi alla prova!
È una domanda che mi faccio da tempo. Ecco parliamone..
RispondiEliminaDavvero interessantissimo il tuo contributo.
Grazie 🙏