FRAGMENTA - Deborah Prestileo - Scrivere, ScriverSI

 

Deborah Prestileo

In un mondo frenetico nel quale la velocità sovrasta ogni cosa, scrivere non è che un’azione  di sospensione che ci attraversa in uno spazio interiore: apre un varco in direzione di un io che possa dirsi autentico, ci forza a nominare ciò che cerchiamo inconsciamente di eludere.  Nominare le cose, dice Michela Murgia, significa attribuire loro un’esistenza concreta,  un’identità materiale: è un modo per riconoscerle all’interno, per renderle visibili all’esterno e per sottrarle all’indistinto, a quella matassa emotiva e cognitiva che ci ritroviamo  quotidianamente a districare. Quello del nominare è un atto che, modificando il nostro modo  di percepire il mondo, agisce direttamente su di esso: quando nominiamo qualcosa,  assegniamo a essa un certo modo di esistere nel nostro universo mentale e culturale. Ciò  che nominiamo acquisisce contorni precisi, diventa afferrabile e si manifesta a noi in forme che ci siano comprensibili.  

Nominare è prima di tutto un atto politico: chi decide i nomi ha il controllo sui significati, di  conseguenza sulla narrazione che viene data agli eventi. Nominare significa attribuire un (non il) senso: il mondo non ha un significato unico, ma quello che chi nomina decide di dargli.

La possibilità di scegliere le parole con cui raccontarsi ci permette di definire il nostro  vissuto e, in questo spazio, rivendicare la nostra autodeterminazione. Attraverso la scrittura,  scegliamo attivamente come ricordare, come interpretare, come lasciare un segno del nostro stare-al-mondo. 

Ma nominare è anche un atto terapeutico: le cose che non nominiamo rimangono spesso  intrappolate – invisibili, soffocanti – in un non-luogo dell’inconscio. Riuscire a dare un nome  al proprio dolore, a ben pensarci, non è che la condizione essenziale per elaborarlo, per  trasformarlo in parte della nostra narrazione personale: la pagina bianca ci (ri)specchia nei  contorni che ci definiscono, facendoci vedere più chiaramente cosa conteniamo e cosa,  invece, c’è al di là dello spazio che occupiamo. Scrivere è sviscerare l’invisibile, trovare un  compromesso con ciò che ci abita, dare una forma nitida e definitiva al disordine emotivo  che abbiamo dentro. 

Questo processo non è semplice: sedersi davanti alla carta significa accettare di mettersi a  nudo, lasciare che dal caos indistinto dei pensieri si sedimentino le parole, ri-semantizzare  (tutto) il nostro vissuto. Quando scriviamo ciò che abbiamo attraversato o cosa sentiamo,  scegliamo a quali dettagli dare rilievo, a quali emozioni esplorare e quale significato dare  agli eventi: la scrittura, reinterpretando, plasma il passato e ci consente di attribuirgli un valore che ci appartiene intimamente.

C’è qualcosa di profondamente liberatorio in questo  atto: rileggo ciò che ho scritto, mi accorgo che non sono più la stessa. Nominare e scrivere ci cambia, perché ci costringe a definire attraverso le parole – e quali parole? – i nostri  mostri, a farlo a testa alta nonostante niente ci turbi di più. In onore all’imperativo senecano secondo cui avere potere su sé stessi è la forma più alta di potere, la padronanza interiore e la capacità di auto-governarsi in pensieri e azioni non sono che, credo, il risultato di una pratica costante: prendere coscienza, dare un nome. Perché, quando ci concediamo di essere straordinariamente vulnerabili e onesti, ci addestriamo sempre più a un coraggio – questo, dell’essere – che non risiede altrove.

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