POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia incontra Alessandro Moscè

 

Filippo Golia


Era una mattina di sole, una primavera ancora fredda.
Mi aspettava il set preparato per un servizio televisivo sul poeta romano Gabriele Galloni, scomparso circa un anno prima. Lavoro in una redazione di esteri ma ogni tanto realizzo qualche reportage di tipo culturale; non più di un paio di volte il tema è stato la poesia.
Per raccontare Gabriele Galloni, oltre agli amici e alla madre Irma, avevo cercato Alessandro Moscè, curatore della sua raccolta di poesie postuma, in pubblicazione (allora, oggi pubblicata) da Crocetti.
Proprio quella mattina, però, Putin, a qualche mese dall’invasione dell’Ucraina, aveva tenuto un discorso, di cui oggi non saprei dire, ma sicuramente minaccioso, e dalla redazione volevano che fossi io ad occuparmene.
Non c’era nulla da fare: il set andava abbandonato, dopo essere stato accuratamente preparato. In questi casi si cerca di salvare il salvabile. Tra le interviste irripetibili c’era quella a Moscè, che era venuto da Ancona.
Aveva portato con sé la mamma, in gita.
Eravamo tutti ai tavolini di un bar, nella piazza centrale del Trullo, il bellissimo quartiere di Gabriele a Roma, e, nonostante la mia evidente agitazione - se non dobbiamo parlare di vero e proprio panico - sia Moscè che sua madre erano seduti lì tranquillissimi, a godersi il sole di inizio primavera. Di lui colpiva l’aspetto florido e curato. E, ancora una volta: la calma.
Non si è scomposto nemmeno quando mi sono fatto sotto con domande un po’ frettolose sulla poesia di Galloni. Con brevità ha scandito:

Gabriele era rappresentativo della sua generazione, perché la raccontava. Ma raccontandola riusciva anche a esprimere in se stesso sentimenti, percezioni e dimensioni universali, che appartenevano ai ragazzi della sua età. Fino al punto di essere diventato una sorta di icona.”


Buona la prima. E sono scappato sperando di non trovare traffico.
La sicurezza con cui mi aveva risposto mi era rimasta impressa. Così mi sono procurato un suo libro di poesie: Per sempre vivi; l’ultimo, pubblicato quest’anno.
E mi è parso di ritrovare una vecchia conoscenza.
Leggendo la poesia italiana contemporanea molto spesso sembra di vedere affacciarsi, tra i versi, il volto austero di Giorgio Caproni, qualche volta si risentono Luzi o Zanzotto o Sereni. Più prossimi incombono, a frantumare il senso e a rendere rarefatta e quasi afasica la lingua, De Angelis e Benedetti.
Ma c’è un altro poeta, da me amatissimo, della generazione precedente, che mi sembra tanto riverito quanto accuratamente evitato. Forse, mi dico a volte, perché è irripetibile. O perché riprenderne il ritmo sarebbe estremamente rischioso.
Fatto sta che quel narrare disteso e ampio – non grave e epico come in Pavese, non secco e analitico come in Pagliarani – ma grasso, sensuale, costruito su un metro salmodiante e regolare, appena incrinato da un cedimento, anche sintattico, al sovrabbondare di un aggettivo, che sembra coincidere con una programmata e controllata extrasistole, con una leggera aritmia del cuore, dovuta forse a un eccesso di languore, o di saporosa e feriale dolcezza, quel modo quasi proustiano di raccontare con i versi, non sembra aver avuto eredi.
E una cattedrale - situata appena fuoriporta, lungo le pendici dell’Appenino tosco-emiliano - della poesia italiana, come “La camera da letto”, sembra tutto sommato abbastanza dimenticata.
Ed ecco che aprendo “Per sempre vivi”, di Alessandro Moscè, ho risentito il brusio luminoso e per niente vinto della provincia di Attilio Bertolucci.
E mi sono rassicurato sul fatto che ogni poesia scorre come un fiume e, prima o poi, confluisce in un’altra acqua.
E quindi già dai primi versi:


Il filobus è passato due volte nel vortice dell’aria
partito dalla stazione di Ancona
con i cavi di sostegno elettrici in aria.
Nonno Ernesto era seduto in ultima fila
leggeva il giornale senza occhiali
i capelli tirati indietro dalla brillantina Linetti


si avverte subito la gara, quasi una rincorsa, tra una ragione ritmica fondata pur sempre sull’endecasillabo, e una ragione narrativa che lo travalica per crescere nel lievito di dettagli profusi, tra nomi propri e aggettivi.
La generosità nell’aggettivazione è essenziale a questa poesia feconda e ben disposta:


l’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia
dopo pranzo nel vento fantasma
battuto sulle lapidi cimiteriali
di redivivi in altri paesi, in altre case
figuranti nel mese alchemico di febbraio


E se definiamo questa poesia ben disposta, dobbiamo chiederci ben disposta verso cosa; e l’unica risposta possibile è: ben disposta verso ciò che più la poesia contemporanea fugge, cioè la ricostruzione di una possibile realtà, interpretata liricamente.
Una realtà possibile (come anche in buona parte della poesia di Pasolini o di Antonio Machado), naturalmente, non “la realtà”, visto che poi si tratta di morti che ritornano, visioni, fantasticherie; e subito fa capolino anche il nume tutelare di ogni provincia: Federico Fellini.

Così il libro si snoda in capitoli che si intitolano: Apparizioni, Sogni, Silenzi (poesie più brevi, queste ultime, simili a folgorazioni). Per sfociare nello stupefacente penultimo capitolo: Dialoghi con mio padre.
Qui, legandosi sia alle Operette morali di Leopardi che ai Dialoghi con Leucò di Pavese, e ricordando – credo – la compresenza dell’aldilà così pacifica nelle opere di Sereni, il poeta instaura un serrato dialogo con l’anima del padre; un’indagine rigorosa sulla natura dell’altro mondo, alla presenza di una montagna, nell’attesa di una remota risposta, nella consapevolezza dell’estinzione di ogni desiderio, che sembra far coincidere le ragioni di quel mondo con quelle – assolute - della poesia.
E c’è ancora spazio per un’ultima sezione, dedicata alla malattia mortale che colpì Alessandro da giovane, facendone un sopravvissuto fin dai primi passi. Quale forse è ogni poeta.
E a questo punto mi chiedo solo: ma cosa aveva detto di così importante, Putin, quella mattina, che dovetti lasciare di corsa una così bella compagnia?
Davvero non è dato ricordarsene.



Per sempre vivi, A. Moscè, Luigi Pellegrini Ed. 2024


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Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Prima di dare alle stampe, per Luigi Pellegrini Editore, il volume di poesia Per sempre vivi, aveva pubblicato le raccolte L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019). I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto BevilacquaMaterna parola (Il Rio, Mantova, 2020).
Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. 



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