Nino Iacovella - Oggi la poesia è una pietra scagliata che non colpisce più nessuno

Nino Iacovella

 

In Italia, un paese sempre più segnato dal declino economico e sociale, la poesia e la letteratura sembrano aver perso il loro ruolo critico nei confronti del potere dominante, incarnato da un liberismo economico che non risparmia più nessuno. Tanti, troppi gli sconfitti di una competizione che oramai pervade ogni aspetto della vita umana, come avrebbe detto Michel Houellebecq. E la figura del poeta, una volta guida etica e sentimentale di una comunità, di un popolo, oggi è diventata autoreferenziale, lontana dalla realtà e dalle sofferenze altrui.

A differenza di altri paesi, dove la poesia e la letteratura in genere hanno spesso assunto una posizione di critica netta nei confronti del sistema di potere, la nostra proposta letteraria sembra essersi adattata al corso degli eventi, ripetendo schemi tematici e formali minimalisti. Si è ridotta, soprattutto la poesia, a un rifugio di solitudini egotiche, incapace di farsi portavoce del conflitto sociale del nostro tempo. Il risultato è una scrittura che non si fa carico delle tensioni e delle disuguaglianze oramai dilaganti e si rifugia in una confort zone intimista. 

Ma negli ultimi anni qualcosa sta cambiando almeno nella narrativa. Voci come quella di Roberto Prunetti, con il suo saggio Non è un pranzo di gala, e la prefigurazione dell’opera di Vitaliano Trevisan Works, sembrano voler scuotere il sonno delle patrie lettere. Voci che rompono l’assedio dai plot e dalle paturnie piccoloborghesi per riportarci alla carne viva della nostra epoca: alle classi subalterne, alla sofferenza dei lavoratori e alla disperazione dei dimenticati. Una letteratura che riporta al centro le asperità sociali e il conflitto, restituendo alla scrittura una propria funzione critica e di denuncia.

La poesia, tuttavia, rimane in un terreno ambiguo. Parafrasando Christopher Lasch dal suo saggio La cultura del narcisismoL'individuo contemporaneo è in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive” e la poesia ne diventa una delle sue possibili forme di rifugio narcisistico. La comunità poetica, d’altronde, si configura come una costellazione di solitudini che cercano disperatamente un riconoscimento reciproco. Il pubblico della poesia è per lo più ristretto alla cerchia dei poeti stessi, creando un cortocircuito autoreferenziale che indebolisce il valore stesso della fruizione della scrittura poetica. La poesia così rimane chiusa in una dimensione di competizione e autocompiacimento.

Tuttavia, una reazione a tutto questo esiste. Ci sono poeti che non rinunciano a una scrittura impegnata, che raccontano il proprio conflitto esistenziale con la società. Sono voci che, pur essendo marginali in un genere letterario già di per sé marginale, continuano a offrire uno spunto di riflessione critica. In questo contesto, la poesia diventa uno strumento di resistenza contro il dominio della fede nel mercato.

In conclusione, la poesia di oggi rischia di essere un prodotto letterario funzionale a un sistema che ne svilisce la capacità di attivare le ragioni più profonde e sentimentali della denuncia. Il poeta, per questo, deve tornare a essere, come nel passato, soggetto attivo civile e morale sia nell’atto di scrivere e sia nell’atto di vivere. Deve ritrovare coerenza. Solo così la poesia potrà tornare a essere una pietra scagliata capace di colpire e interessare un pubblico più ampio, vero.


Una poesia di Spyros Aravanis e un mio inedito a conclusione tematica


Ho scritto poesie aggrappato sulle rocce

con una mano tenevo i rami

con l’altra la penna.

Mi hanno accusato di non essermi dato del tutto.

Non hanno visto, pare,

che quando il corpo era sospeso nel vuoto

nella mano reggevo il ramo spezzato.

La penna, conficcata nella roccia.

Spyros Aravanis



Io credo in un solo Io, creatore del ceto e della guerra,

credo nel capitale finanziario, nei paradisi fiscali,

nella massimizzazione del valore per gli azionisti,

nella terra come fattore produttivo 

destinato al lavoro degli immigrati,

credo nei meno abbienti destinati alle periferie

nella marginalizzazione del conflitto sociale

che ci rafforza nella competizione globale

 

Credo nella flessibilità del lavoro,

nell’esercito di mano d’opera di riserva,

nella trickle down economy

 

Credo nel mercato, che ci rende liberi

di scegliere, credo nei rider 

nuovi cavalieri del lavoro, avventurieri

di un’epoca senza epica, imprenditori

di sé stessi fuori dalla noia operaia

 

Credo nella catena globale del valore,

nella produzione dislocata nei paesi

senza diritti e a basso salario

 

Credo nella dislocazione della produzione

come la celere disloca la spalla del manifestante

quando è a terra, inerme, battuto

 

Credo nella debolezza della forza contrattuale

dei lavoratori, così come credo nella forza

della propaganda e dell’immagine pubblicitaria 

 

Io credo in un solo Io, nella classe media assuefatta 

al limpido calore dell’acqua, alle nostre estati in vacanza,

alle acque termali che ci lessano come rane bollite

 

Io credo in te dio mio che hai la mia stessa faccia,

credo nella mia generazione che ha eretto 

cattedrali egotiche e scavato fossati comuni

per difenderci dagli assedi della morte

 

Credo in un solo Io, nel mostro interno

che ci vive dentro,

come nel dipinto di Goya

dove Saturno, con occhi alieni, divora il figlio

strappando a brandelli la carne

della propria carne

Nino Iacovella


Commenti

  1. Una riflessione che condivido in toto. La poesia in Italia ha una storia di separatezza, in cui la questione della lingua è stata tante volte solo una scusa per battere strade più comode e appartate. Eppure abbiamo avuto una stagione romantica che ha creduto nel sovvertimento dello status quo, forse però non abbastanza da abbandonare il compiacimento solitario di sé stessi. Oggi la questione della lingua non esiste più e la parola dovrebbe essere denuncia. Complimenti per l'inedito.

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  2. francesco sassetto26/12/24, 08:45

    Perfettamente d'accordo anh'io con la tua analisi, Nino. E allora che si fa? Vero è che alcuni (molti ) poeti cercano di fare una poesia cosiddetta "civile" che almeno mostri e denudi ingiustizie, crimini che quotidianamenta, da decenni, avvengono nel nostro Belpaese, oggi, anzi, in modo così pervasivi e quasi "normale" che molti (troppi) nemmeno se ne accorgono. Ma questo è il tempo che viviamo, che purtroppo bene si riflette anche in altri ambiti artistico-culturali, basta pensare alla canzone d'autore (dov'è finita?), all'informazione (ridotta a 0, a parte poche voci coraggiose continuamente attacate e insultate da tutti). Io continuo a scrivere poesia "civile", consapevole della sua "inutilità", della sua incapacità-impossibilità di scalfire minimamnte un presente vomitevole, ma intantoalmeno non sto zitto, non faccio finta di niente. Bel problema, comunque! Grazie e ciao!

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  3. francesco sassetto26/12/24, 08:48

    scusate gli errori di battitura ma l'argomento mi appassiona e scrivo troppo velocemene!

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