MUDDICHI – Stefania Giammillaro – “Cu mancia fa muddichi”
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Stefania Giammillaro |
“Muddichi” signore e signori! Si inaugura
oggi una nuova Rubrica, un nuovo spazio, che si propone di far tirare su un bel
respiro di sollievo da qualsivoglia peso, masso, sassolino, scheggia abbia gravato
sul fegato, silenziato l’ossigeno, adombrato la possibilità di uno sguardo
amorevole sul mondo. La ricetta presenta gli ingredienti della saggezza
popolare siciliana, le spezie della poesia e il q.b. del sale da aggiustare su
qualche considerazione di matrice filosofica o semplicemente personale.
La
Sicilia, infatti, è stata nei secoli della sua storia terra fertile, non solo
di conquiste e saccheggiamenti, ma anche e soprattutto di tradizioni culturali
che si tramandavano di generazione in generazione, quale veicolo privilegiato
per trasmettere e accedere a ciò che si imparava con l’esperienza nuda e cruda
della vita, senza filtri, senza distrazioni, quando le strade si percorrevano a
piedi scalzi e il profumo di latifondo era l’unico in commercio o far crescere
l’unghia del mignolo destro era utile per cucire le reti da pesca.
Il
mio bagaglio culturale lo devo in particolare ai miei nonni, che non hanno mai
avuto sconti, costretti sin da bambini a sedere di fronte ai conflitti mondiali,
all’età del Fascio, a conoscere la tessera annonaria, a soccorrere la sorellina
più piccola travolta da un carrarmato, a recitare a memoria preghiere affinché
qualcuno ritornasse a casa, se non sano,
almeno salvo o a vedere la propria
madre sollevare dal collo un soldato alto e grosso il doppio di lei, urlandogli
in faccia: “Pigghiate a mia! Pigghiate a
mia! Già mi rubastu du figghi e stavutru figghiu nun vu lassu! Pigghiate a mia,
pattu iò pà guerra!”
(Prendete me! Prendete me! Già mi avete
rubato due figli e quest’altro figlio non ve lo lascio portar via! Prendete me,
parto io per la guerra!)
Ebbene,
date queste premesse, che ho ritenuto utili, per esprimere le ragioni sottese
alla scelta, di condividere quel vissuto,
affinché possa fungere da gancio o trampolino di lancio da cui partire per
conoscere l’eredità (o ereditarietà) del non-detto
con cui più o meno ciascuno di noi ha avuto o ha a che fare, anche
inconsapevolmente, nel quotidiano; possiamo addentrarci in medias res.
Si
inizia con il proverbio da cui mutua il titolo: “Cu mancia fa muddichi”, letteralmente: “Chi mangia lascia briciole
(nella fattispecie, briciole di pane).
Il
messaggio/ l’insegnamento da ricavare è o dovrebbe essere: “Chi fa qualcosa,
lascia il segno” che rintraccia il suo esatto contraltare nel detto: “Nun diri (o fari nenti) ca nenti si sapi”
(“Se non dici – o fai nulla – nulla può sapersi in giro” – solitamente legato
ai pettegolezzi).
“Lasciare il segno” è
quindi legato ad un qualcosa di assunto ed elaborato che richiama il noto “l'uomo è ciò che mangia" del
filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 –
Norimberga, 13 settembre 1872), attraverso cui quest’ultimo ha inteso demolire
ogni illusione di divinità per ridare all'uomo fatto di carne e sangue, il
potere e la responsabilità sul proprio divenire[1].
“L’uomo è ciò che mangia”
corrisponde dunque a “Cu mancia fa
muddichi”, nella misura in cui il senso primo
di entrambi i detti assurge ad assunzione di una “umana” responsabilità nel proprio
dire e nel proprio fare, la quale ha inevitabili ripercussioni sul divenire di
ciascuno/ciascuna di noi, che lascia il segno in quel “divenire” e che proviene
necessariamente da una fonte esterna di nutrimento che crescendo decidiamo di
assumere: l’uomo non è né può essere “autosufficiente” per la propria
sopravvivenza.
“Ora sappiamo che noi pompiamo tutto
dall'esterno, che non abbiamo nulla di proprio, che in noi non c'è nulla che
non sia anche fuori di noi. L'alimentazione soltanto è la sostanza,
l'alimentazione è l'identità di spirito e natura; l'alimentazione è l'έν καὶ Πᾶν
[uno e tutto] di Spinoza che tutto comprende in sé, l'essenza delle essenze.
Tutto dipende dal mangiare e dal bere. La diversità di essenza è soltanto
diversità di alimentazione. L'essere fa tutt'uno con il mangiare; essere
significa mangiare; ciò che è (ist) mangia (isst) e viene mangiato. Mangiare è
la forma soggettiva, attiva, esser-mangiato la forma oggettiva, passiva
dell'essere, ma entrambe sono inseparabili. Oh! Sciocchi, voi che per la grande
meraviglia di fronte all'enigma del cominciamento spalancate la bocca e non vi
accorgete che la bocca aperta è l'ingresso all'interno della natura! Quello con
cui si comincia a esistere deve essere anche quello con cui si comincia a
pensare. Il principium essendi [principio dell'essere] è anche il principium
cognoscendi [principio del conoscere]. Principio dell'esistenza è
l'alimentazione, l'alimentazione quindi è il principio della sapienza. La prima
condizione perché tu metta qualcosa nel tuo cuore e nella tua testa è che tu
metta qualcosa nel tuo stomaco. [...] infatti se non c'è nulla nello stomaco,
non c'è nulla neppure nella testa. La testa è la facoltà di concludere, ma le
premesse, gli elementi di questa conclusione stanno nei cibi e nelle bevande.
Rimane fermo pertanto: "la sostanza alimentare è sostanza del pensiero.”[2]
Ovviamente
il nutrimento cui attingiamo dall’esterno per il nostro sopravvivere ed il correlato divenire può appartenere e provenire da un dato ereditario, di
contesto familiare o sociale di riferimento, manifestandosi quale suo precipitato logico, o può essere anche inglobato in
maniera più consapevole successivamente negli anni come volontaria presa di
coscienza. In entrambi i casi, credo, non vi sia esonero dalla sopra detta
“umana” responsabilità, se mai stimolo al conoscersi.
Ma,
a questo punto, occorre chiedersi se un siffatto regime alimentare influisca in
modo a sua volta inevitabile ed imprescindibile sul come si esprime l'arte
ed sul cosa si sceglie di esprimere. O arrivati a quel punto esiste una via di
fuga, un escamotage che può portarci
a distanziarci dal sé e guardarci dall’esterno?
Per
chi scrive, dunque, potrebbe realizzarsi un ulteriore passaggio, un altro
anello della catena di montaggio: “quello che assumo lo scrivo e quello che
scrivo verrà assunto da qualcun altro”.
Ritornando
al detto siciliano, sembra non vi siano dubbi: se mangi fai “muddichi”, quindi
lasci il segno e “te ne assumi la responsabilità” aggiungerebbe Feuerbach.
Qui
invece si sta provando a porre una dieresi sui due detti “L’uomo è ciò che mangia” e “Cu
mancia fa muddichi”, interrompendone l’automatismo quantomeno rispetto
all’arte in generale e alla scrittura in particolare.
A tal
proposito conferente appare l’esempio originale impiegato in diverse interviste
dalla giovanissima e talentuosa scrittrice Fosca
Navarra, che paragona l’atto dello
scrivere a quello di fare la “cacca”.
Esatto, proprio la “cacca” quale
naturale approdo, o meglio dire, risultante del percorso digestivo in esame, che
rielabora tutto quanto da noi ingerito dall’esterno, tutto quanto da noi ascoltato,
percepito, studiato, letto dall’epiglottide al prodotto finale.
Ecco
dove intercettare, dove può insinuarsi il punto di rottura, che frega tra loro
energicamente le mani per riscaldarle, la sferza che accende la miccia: e se
quanto fino a quel momento fagocitato poi non lo riconosciamo come “nostro”? Se
quel prodotto, originato dal nostro essere e sentire, poi lo osserviamo con distacco
come totalmente estranei allo stesso e lo rinneghiamo, non lo riconosciamo come
nostro e non ci riconosciamo più in esso?
Ne “Il
verbo di fronte” (Einaudi, 2024), - titolo di per sé emblematico - l’ultima
silloge di Roberta Dapunt (Val
Badia, 1970) emerge la “scrittura con la
sua potenza ed impotenza, con i suoi tempi verbali nei quali è difficile
immedesimarsi, così come è difficile riuscire ad identificare se stessi nel
fluire del tempo non verbale”[3].
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Il verbo di fronte - R. Dapunt - Einaudi 2024 |
versi di poesia brutta
Non
un verso. Non uno che mi stia di fronte,
che
riconosca la mia scrittura
e
si dica conveniente alla richiesta interiore.
Le
mani ferme e senza garanzia di gioia,
dimenticano
l’intensa emozione del linguaggio.
Da
tempo non sono in unione coi verbi, loro stessi
non
vengono a sapere di me. E allora
prova
tu a tracciare sulla carta il segno giusto,
quello
che ti appartiene, che ti rappresenta
e
che nella lettura dopo ti possa interpretare.
Perché
dopo
scorreranno
gli occhi sopra il tuo testo stampato,
riconosceranno
i segni grafici in loro suoni
e formeranno gli altri nella loro mente una
pronuncia,
le
parole, le frasi del tuo componimento.
Mentre
tu qui e ora a comporre versetti.
A
consegnare versucoli e avanti
dice
Treccani, questi sono versacci.
Versi
appunto, di poesia brutta.
*
il
verbo di fronte II
Fermai
i miei versi sulla richiesta di comprensione
posta
sul desiderio di capire e di farsi capire.
Più
in là continuo a vedere il mio prato,
l’abitudine
dei suoi colori:
la
neve, i variopinti fiori, il verde.
Mi
riprendo in questo maggio piovoso le mie scritture,
che
non ho mai smesso di tenere tese,
seppure
pochi gli inchiostri durante un intero inverno.
E
un intero autunno prima.
E
ancora prima un’intera estate.
Quanto
tempo poesia ti ho lasciata
senza
riflessione e scrittura. In solitudine sulla parete
non
ti ho più letta, non ti ho scritta né corretta.
Chiedo
dunque al mio intelletto di proseguire
o
meglio, come pormi al disopra delle mie
convenienze.
Guardare
oltre a quello che vedo. Attraversare
il
mio prato e l’abitudine dei suoi colori
a
beneficio del solo verso scritto. Dissolvermi
per
coerenza fra la forma e il contenuto,
per
poter scrivere di nuovo e nuovamente il mio prato.
*
lo
specchio
Tu
che hai bisogno di una conferma,
in
questo specchio l’anima che vedi ti riguarda.
Ti
riguarda questo esercizio sterile, la visione di te,
la
tua storia. Qui attraverso non sei diverso,
seppure
la tua destra diventi sinistra,
luminoso
sole se illuminato.
E
ti credi altro da te, rovesciata esistenza
e
la domanda: cosa guardi? Cosa vedi?
Vedi
uno, nessuno e centomila
che
si ripetono e si ripetono le storie,
la
conoscenza di te in doppia misura,
posta
accanto per servire al medesimo scopo
verità
e menzogna. Poco oltre le civiltà, i miti
l’umanità
carnefice, i vinti.
E
vedi nello specchio entrare la vanità e
l’orgoglio,
dallo
specchio uscire in triste solitudine
entrambi
e
malgrado ciò non poterne fare a meno
Insomma,
se tutto questo scrivere e darsi e donarsi in nome della parola sia invece solo
“vomito” che non trattiene inchiostro né saliva, o qualcosa, seppur nostro, da
espellere che non possiamo o non vogliamo trattenere perché ci ripugna, perché
altrimenti troppa paura, troppa sofferenza a realizzare di trovarsi in bilico nella
“doppia misura”, piegati al medesimo scopo che serve la verità “dell’essere” e
la menzogna “dell’umano”.
Fino
a che punto “l’uomo è ciò che mangia” e se “mancia fa muddichi”? Dov’è, se c’è,
un limite, un confine, una via di fuga che consente di ammettere: “ciò che scrivo, non sono io”?
[1] Vito
Gionatan Lassandro, “L’uomo è ciò che
mangia – crasi critica” in www.academia.eu
[2] Ludwig Feuerbach, L'uomo è ciò che mangia, Brescia, Morcelliana, 2015, in edizione ampliata 2021: "L'uomo è ciò che mangia", L. Feuerbach, Morcelliana 2012, ed. ampliata
[3] Estratto
dalla nota sul retro di copertina de “Il verbo di fronte” (Einaudi, 2024).
Un contributo molto ricco di spunti, di percorsi di pensiero, di intuizioni a dimostrare come nei proverbi si condensi l'atteggiamento di un popolo verso la realtà delle cose, un atteggiamento che è il "sugo della storia" direbbe qualcuno. Complimenti, letto, da siciliana, con grande interesse e, perché no, un pizzico di orgoglio.
RispondiEliminaMi piacciono molto queste commisstioni tra proverbio , filosofia e letteratura. Alla fine si scopre che non sempre ma spesso i proverbi sono biblioteche.
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