LADRO DI STELLE - Marco Brogi - Mentre i babbi dormono
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Marco Brogi |
Mentre i babbi dormono i figli tentano di vivere, di provare a star sopra il dorso di un attimo di quiete. Mentre i babbi dormono con la testa reclinata sul petto, tra il vuoto e le mani quasi in preghiera, la televisione anestetizza il silenzio della stanza e un passero zampetta sul davanzale, piccino piccino, e il vino che i babbi non bevono più perché a quell'età fa male si versa sulle loro giornate. Le macchie del vino non più bevuto fioriscono sulle loro guance, che non è sangue rappreso quello e nemmeno le vampate di calore per la pressione alta, no, quello è il rosso non più gustato, di 12 gradi e mezzo, comprato alla cantina sociale, che dava scintillio agli anni che precedono il tunnel, quando non sei più giovane ma si può fare, e si può ancora manomettere il grigio. Mentre i babbi dormono i figli si chiedono se fanno qualcosa di sacro per loro, per quel precipitare nel non decoro della piscia e della merda che non avvertono più quando arrivano. Mentre i babbi dormono i figli rintuzzano gli attacchi dei sensi di colpa per arrendersi all’istinto della sopravvivenza, alla voglia di scappare in un luogo rosa, dove piovono fragole e incanto e la gente esce senza ombrello. Mentre i babbi dormono e il pannolone fa il suo lavoro, i figli si raccontano cazzate, elevando una schifezza a capolavoro. Mentre i babbi dormono e fanno sogni confinanti con la fine, i poeti si scannano sui social, Maria De Filippi alleva amici, governandoli con piatti ricolmi di miraggi, e nelle case, nei locali, nelle auto, al cellulare si fa finta di essere felici. Mentre i babbi dormono la loro deriva rotola in direzione dei figli, e loro non sanno se fare i conigli e scansarsi o farsi travolgere in pieno per poi raccontarsi e raccontare di avere fatto tutto quello che c’era da fare.
Senza la poesia di Fortini che segue (da Poesie inedite, Einaudi, 1997), lo scritto che avete appena letto, probabilmente, non ci sarebbe mai stato.
Nella mia casa di Firenze a quest’ora
mio padre non ha ancora acceso la luce e resta
dormendo nella poltrona vicino alla radio,
mente fuori la sera della domenica è di freddo
trasparente, di villa dal Ceceri alla Consuma.
In pomeriggi come questi a quest’ora
quand’ero solo da ragazzo nella casa di Firenze,
nemmeno io accendevo la luce e guardavo
come veniva la sera di fine febbraio sugli orti,
sui fischi dei treni esili, e lampi da vetrate.
Giravo per casa senza far rumore,
dov’erano le cose lasciate dalla famiglia, i bicchieri
sciacquati e capovolti nella cucina, i giornali,
la cenere nel portacenere.
Non so che pace sia, o che amaro sia
nel sonno che viene a quest’ora della domenica
quando ancora non si accende la luce
e non c’è nessuno in casa.
Si ricorda allora il tempo che era per casa
un piccolo gatto bianco che un giorno sparí;
gli album dei disegni, le bottiglie vuote, la gente
morta quando si era ragazzi;
e s’invecchia di due, di cinque anni in un giro d’occhi,
senza rumore come un ramo di cenere
si disfa nel caminetto già brace coperta.
Prosa o poesia? Quel che è certo è che coinvolge dalla prima all'ultima parola, con il sapore dolce-amaro della vita che scorre per tornare all'origine.
RispondiEliminaGrazie anonimo. Ho riconosciuto il tuo sentire
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