ORDITI - Anna Rita Merico - su Il logorio della vita moderna di Monica Messa

 

Anna Rita Merico

Non riesco a trovarmi[1]

 

Queste pagine vocianti di Monica Messa attraversano il silenzio. Vengono da un lontano che ci appartiene. I versi dell’Autrice giungono tratteggiando la condizione di una contemporaneità che ha, come sua cifra, la velocità che svuota e la fretta che annulla, maschera il nulla, svuota intenti. Una contemporaneità che ha portato dissoluzioni ed evanescenze della soggettività, una contrazione del tempo nell’unica durata del presente, una diversa percezione valoriale della condizione umana.

Non riesco a trovarmi: condizione in cui tempo presente e percezione di sé si sovrappongono ed evocano una dimensione di spaesamento, disorientamento.

Non riesco a trovarmi: una piazza di De Chirico abitata da segni in relazione e personaggi stagliati come immobili scacchi. Nulla di umano in uno stare al di fuori della storia, delle relazioni in un freddo cosmico in cui la probabilità di un possibile rientro in sé, nel caldo di un abbraccio, nella linea di uno sguardo da incontrare combatte con le fragilità di esposizione ad un labirinto in cui la parola galleggia spesso svuotata di sé e della sua sacralità.

 

Non riesco a trovarmi

Sono fuori di me,

mi nascondo.

Perché altrimenti mi dovrei delle spiegazioni…

Mi rinverrò forse,

nuda,

saccheggiata,

in fuga.[2]

Breve ed intenso testo, all’interno di questa incalzante silloge. Versi che aprono ad un passaggio capace di indicare un punto di vista sul presente. Una visione attenta ad una quotidianità in cui circola la consapevolezza di uno scacco, di un punto di stallo che interroga e si mostra. Una soggettività che si guarda nella ripetizione, nell’esito, nel desiderio.


Il Logorio della vita moderna, Independently published, 2021. 

In Il logorio della vita moderna di Monica Messa, compaiono molte presenze che immobilizzano l’inquietudine ponendola al servizio di un “fare” capace di annullare il trascorrere delle ore lasciandole affogare in ripetizioni sfiancanti, in frette insensate, in fughe dalla lentezza. Sembra che l’Autrice stacchi le donne di Hopper dalle tele e le lasci esprimere in poche, scarne, autentiche parole prima che tornino, ancora, nell’immobile linea orizzontale di un affaccio, di una soglia, di un’attesa.

 

Scrissi di getto.

Scrissi di dolore.

Scrissi perché lessi.

Scrivo perché scendo.[3]

 

Un manifesto asciutto e talmente colmo di intenti da rarefarsi in poche, acute parole. Tutto un senso del versificare annidato in un’azione colma di significato: scendo. Scendo dentro di me, scendo tra i denti della realtà, scendo nelle profondità di cieli che mi pavimentano il sentiero, scendo nei labirinti di forme che mi chiedono luce. L’atto dello scendere mi interroga e ne riporto tondo di perla, dentro la visione presente. Sono in una tela di Hieronymus Bosch, ho perso ogni metafisica, ho fermato ogni possibile scorrere del tempo, ho fissato con puntine acute ogni oggetto trovato dandogli forma e peso e misura. Ne scrivo affinché nulla sia disperso.

 

Io non sono dimostrabile.

Se fosse vero, non lo sarei.

Se fosse falso, lo sarei.

È indecidibile.

E il terzo escluso gode.

E non sono dimostrabile nel sistema dato,

nella mia vita.

Se vi potessi rinchiudere

ogni evento, persona e oggetto della mia vita

non sarebbe completa

perché non conterrebbe se stessa.

È incompleta.

A noi decidere il senso.[4]

 

Come quando mi capita di addentrarmi in una salita capovolta di un’opera di Escher. Cerco subito l’affaccio da una balaustra che mi tenga fianchi e punto vita e, da lì, misuro distanze, prospettive in fuga. Inseguo con lo sguardo il punto di partenza affinché, esso, possa svelarmi il pulviscolo nel quale va a posarsi ed io possa trarne direttrice. Puntualmente, nulla che me dica orizzonte e tramonto. Stacco linee da queste perfette geometrie impossibili, tra le mani mi scoppiano i sensi come bolle iridescenti soffiate da una bambina. Resto nel fragile di una decisione da cercare.

Il vento di scirocco/ orchestra i miei pensieri./ I panni danzano/ bisbigliando appena,/ le case si difendono/ come possono/ dalla sera./ Un odore/ di bruciato/ di notte incombente,/ il sonno in arrivo/ prima di un libro meritato./ La luna,/ la luna assente/ nel quadrato di cielo/ che mi è dato osservare./ Fra gli scuri aperti/ indovino/ profili e tendaggi./ Qualcuno brinda,/ nella finestra insonne./ La stessa notte,/ immersi tutti nella stessa notte,/ bella e sfrontata,/ come se non dovesse mai più/ sorgere il sole.[5]

E mi capita di raccogliere panni stesi al filo di un meridionalismo a me vicino. E così, quei panni, nel piegarli e impilarli li capovolgo. Ne faccio gesto come di clessidra che inverte direzione. Guardo impassibile e attenta come fossi nel centro di una tela di Levi, sprofondata in quegli occhi-baratro che mai hanno vissuto né requie, né sonno goduto. Quel vento doppio di scirocco ne appanna e ne vela la scena mentre me ne lascio toccare. Non scompaio, attendo.

 

Sboccia.

Dolore.

Su muro.

Scarlatto attende

Buio.

Questo amore.

Così.

Per sempre.[6]

 

Una madonna calda di pieghe e di morbidezze. Sono nel ventre di una linea verticale in cui procedo verso il basso eppure incappo in un movimento di sguardo che mi obbliga a salire staccandomi, in tal modo, da una pala indolenzita e curvata dal peso. Non mi basta neanche un prezioso drappo rosso di Tiziano per contenere questo “per sempre”. Per, per, per… perché quando Sboccia. Dolore. le mie mani s’annudano in immobili stille Così. Per sempre. Nella ciotola, in cucina, impasto buio, amore, dolore. Non chiedetemi altro.

Un tamburello, / una trottola/ e un pacco di biscotti. / Silenzio di neve dalla finestra./ Pensieri al litio/ illuminano la stanza,/ cripta museo,/ noi fantasmi anzitempo./ Corridoi lunghi e spietati/ ingoiano le nostre voci,/ grigio passo striscia/ i battiscopa in fila indiana./ Borbottano le arterie segrete/ della casa,/ stride il cemento armato/ delle sue ossa lunghe./ Che senso ha la quiete/ senza la tempesta?[7]

Una tela da progettare. Ne infilo oggetti e sensazioni e atmosfere al filo di un ago. Voglio che dica immobilità, quella che si accuccia tra un fatto ed un evento. Questa casa-utero mi rimbomba nelle vene come costruzione di pensiero autistico che ripete se stesso fissandosi, poi, in una macchina desiderante, una di quelle di cui dice Bruno Bettelheim e di cui mai potrò conoscere l’ultima puleggia. Sono integra eppure fantasma. Uno strano svuotamento mi delinea lasciandomi muto fantasma. Mi seggo nelle vene di un bianco.

Una silloge in cui la molteplicità dei rimandi alla quotidianità ed al suo riscatto comunicativo, attraverso la scrittura poetica, ridonda di sensi e tensione al superamento di bave che -oggi- legano, limitano il procedere dell’umano andare. I versi di Monica emergono essenziali, stagliati dal dentro di una formazione informatica a dire come e quanto le leggi di vita siano flusso potente che sbuca da ogni dove interrogandoci, poeticamente.

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Monica Messa è nata nel 1974 a Monopoli. Ha esordito nel 2018 con “Poesiole”, una raccolta di poesie su vari temi, scritte nell’arco di trent’anni. Ha poi pubblicato “Seppie Ripiene – Poesie per poche lire” (2018) e “Il Logorio della vita moderna” (2021). È di prossima pubblicazione "Una pistola al Luna Park" con la casa editrice RP Libri. Ha partecipato a diversi Festival. Alcune poesie sono state pubblicate in blog, riviste cartacee e online, in antologie nazionali e internazionali e nella rubrica “La Bottega della Poesia” di Repubblica – Bari. È stata nelle redazioni delle riviste di poesia “La Vallisa” e “La Confraternita Letteraria”. Sue poesie sono state tradotte e pubblicate in altre lingue. Cura, inoltre, un blog e una pagina Facebook.











[1] Monica Messa, Il logorio della vita moderna, autoprodotto 2021

[2] Esule, cit.pag 76

[3] Scrivere, cit. pag 59

[4] Dimostrazione, cit. pag. 91

[5] La finestra, lo scirocco e la morbosità domestica degli insonni, cit. pag. 111

[6] cit. pag. 20

[7] cit. paug. 22


Commenti

  1. Molto bello tutto. Le poesie vertiginose e la vertiginosa riflessione su di loro…
    Anna Segre

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