INTERMITTENZE - Alba Gnazi - sparendo, è

 

Alba Gnazi

Scoprirsi strada e faro nel dialogo con le ombre, coscienza antica che affonda in nebbie liquidate dal mare, a passo a passo, a passo.
Un consenso muto reso ai ritorni e agli odori tra le mani, nel dono di foglie che sempre commuove, di un autunno di raccolti e falò, di pelli conciate dal riverbero del tramonto, di rituali e litanie, di storie sui volti irrorati dai sogni in fragori di luna.

Se ci si sporge un poco oltre il ciglio del sogno, là dove nessuno vigila e i dormienti oltrepassano ruoli e condizioni, si intravede ciò che intrude rosso tra le ceneri, ciò che diviene fabula e portale, che sparpaglia il tempo tra scogliere e meridiane - il giorno crolla dentro a un solstizio; ha fame la notte, è custode e risveglio.
Ferma la fiducia nel freddo che scorta, nella persecuzione di infiniti presenti in cui bisogna che ci si inventi, bisogna mutare sensi e contorni per non assordare il nome dato ed entrare in quello del muschio, della bruma albina sulle stoppe, del glicine stinto sui tronchi. Bisogna che si ascolti la lingua sotto alla voce, il verbo sotto ombra rubato alle stirpi di ave e radici, nelle rapsodie di luce tra foglie e bisbiglii - così simili a un fruscio, a un incendio trattenuto in fior di palpebra - in punta di piedi, con una nenia per i dormienti e per tutte le Ombre alloggiate nel seno - cui dire Sì, vi vedo, aspetto con voi che sorga il mattino, vi rendo l'Amore taciuto per incauto vivere, sottratto per assurdo morire - Siamo qui, vieni vicino - nell'ora di danze, di fuochi e di aurore, di occhi sfiorati e dita da sfiorare - fino al canto del giorno che germoglia se muore - Vieni via in me, tu che dissolvi - ghiaccia la porta che si chiude - fermatevi lì, non smettete di tornare.

***

Certi testi sembrano emergere da zone per lo più silenti, nascoste tra le vertebre e il respiro, lì a ricordarci che siamo anche quello, che facciamo anche quello: scriviamo, sì, scriviamo - tra le mille e mille (e mille) attività del giorno.

Avevo, dapprincipio, corredato questo testo, ispirato alla festività di Halloween, di una densa spiegazione dell’excursus di detta festività.

Per farlo, avevo ovviamente consultato alcuni testi accademici, un paio di enciclopedie britanniche online e alcuni siti, contemporaneamente nutrendo, in una sezione a latere della coscienza, un crescente senso di insoddisfazione, di assenza.

A quel mio testo mancava qualcosa.

O, meglio: c’era qualcosa di inutile.

Infine, dopo diverse ore di lavoro, studio matto in ore rubate al sonno e rimuginii, ho capito che non era quello ciò che dovevo fare; non dovevo elaborare un percorso conoscitivo della festività di Halloween, perché non era, non è quanto serve a dare senso e spiegazione al testo in apertura.

D’altro canto, mi sono detta, chiunque abbia voglia di scoprire davvero le origini di questa festività può documentarsi leggendo libri, dispense, resoconti disponibili un po’ ovunque e facilmente reperibili sul web.

Allora ho relegato quel mucchietto di parole e citazioni dentro una cartella, una di quelle che di rado vengono aperte, e liberato quel grumo di pensieri, sensazioni, riflessioni incapsulate tra gola e cuore, lì a pulsare, striate e acuminate come le foglie di ottobre, quelle che scivolano a bordo marciapiede e si calpestano con indifferenza, frettolosamente, senza pensare al fatto che si stia attraversando un orizzonte, un arco temporale, una soglia. 

Ho pensato alle feste in casa mia, ai tepori e agli odori, a qualcuno che canta e a qualcuno che sfaccenda, a chi trepesta con pentole e cucchiai, a chi arriva portando un po’ di vento e un po’ di luna, a chi sventola ricordi con gli occhi lucidi, a chi resta zitto, alla luce accesa, alle finestre cosparse di ditate e vetrofanie.

Ho pensato che Halloween, come Natale, i compleanni, ogni sera resa buona da uno scintillio, dalla spuma dei tramonti, dal desiderio, ho pensato che ognuna di queste cose reca con sé un chiarore antico, arcano, che ci oltrepassa e crea altri chiarori, e chiama a sé ogni singola persona presente e passata -perfino futura- il cuore ci detti, il pensiero ci disponga, l’animo ci tenga stretto; qualcuno o qualcuna che spazza via l’orrore del silenzio, la cruda, aspra coscienza del sapersi inermi di fronte a sé stessi.

È sapere che ci sono legami dai tiranti agganciati a sponde estranee al tempo, radici che crescono, si ingrossano, invecchiano, si rigenerano, che attraversano le feritoie tra le epoche e ci restituiscono – I’ve crossed oceans of time to find you[1] - non uguali, non più e non solo noi – eppure sì. Oppure, sì.

Mi si consenta, allora, sulla scorta di questi pensieri, di riportare qui un frammento di quella mia inutile spiegazione, quella finita in un dimenticatoio elettronico, in cui scrivo così:

Halloween, in grado di mutare continuamente, di adattarsi e valicare il tempo, contiene in sé l’idea seminale di passaggio e trasformazione, di ombra e luce, di giorno e notte, di soprannaturale e umano, insieme e non opposti, in una danza che avvicina i lembi del possibile a quelli dell’immaginario, della vita che sgorga dalla desolazione.

In questa interpretazione, Halloween è antitetica a visioni che ne esaltano esclusivamente le forme oscure, facendosi, al contrario, portatrice di rinascita, simbolo di superamento delle paure, possibilità di incontro con il lato più recondito e umbratile di sé, quello che, sebbene ignorato, filtra comunque attraverso gesti, sogni, vissuti, scelte e condiziona il quotidiano vivere con esiti spesso decisivi e sorprendenti.

Il teatro delle maschere, delle personae dotate di più o meno orribili, macabri, granguignoleschi tratti distintivi, timbri e movenze, scelte per un apparente puro caso o per un’adesione chiara e intima a determinati aspetti che nella maschera si ravvisano; quel teatro polveroso, rumoroso, dai fondali troppo sgargianti, dalle note di fondo spesso nauseabonde; quel teatro amorale, umorale, sporco, venefico, quel teatro in cui tutti hanno un’ombra da cui scappare e un’eco stinta in cui rifugiarsi: quel teatro cos’è, se non la vita, che è vita nella morte e attraverso di essa, che è specchio in cui si fronteggiano, in cui si abbracciano – amanti, apolidi, struggenti – tutti gli ego presenti e passati, ostentati e nascosti, accettati e fatti a pezzi, con ognuno dei suoi volti, ognuno dei suoi scopi, ognuno dei suoi mondi.

Cos’è, se non poesia, che fuggendo stringe, che accecando mostra, che sparendo è: come chi si è amato e non torna nel giorno che cambia, eppure resta fermo, immobile, immutabile e immutato, inesplorato e vicinissimo, insaziabilmente amato, vivo accanto, dentro.



[1] Cit. da Dracula, Bram Stoker


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