IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Le parole dell’amore

 

Ester Guglielmino

I moderni cultori della lingua greca giurano che, nel greco antico, esistano almeno dodici termini riconducibili alla parola amore e che, in ciascuno di essi, si possa cogliere almeno una declinazione diversa del più nobile sentimento umano. Tuttavia, volendo essere più sintetici e parsimoniosi, si può forse ridurre tale varietà a quattro accezioni fondamentali: l’eros (ἔρως) ossia l’amore passionale e il desiderio erotico-romantico che ne consegue; la storghé (στοργή), che individua l’affetto profondo e duraturo verso i membri della propria famiglia; la philía (φιλία), divenuta nei secoli prefisso parlante a indicare le più svariate forme d’affezione tra gli esseri umani e, infine, l’agápe (αγάπη) - contraltare greco della ben più nota caritas latina -, che rimanda alle più alte manifestazioni di comunione religioso-spirituale. Non fosse il sentimento più complesso e vivificante del genere umano, potremmo pure considerarli un tantino puntigliosi, questi Greci; ma la tradizione ci ha insegnato quanto merito ebbero nel mettere a nudo la sensibilità delle parole, nel carezzarne la rotondità, nel delinearne al meglio ogni gradazione di senso.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona. 

Dante, Inferno, Canto V, vv. 103-105



Dante non nutriva certo dubbi su quale fosse il tipo d’amore che aveva condotto alla morte e poi all’eterna dannazione gli amanti più famosi della sua produzione letteraria. Inoltre, con questi celebri endecasillabi, Francesca da Rimini non faceva altro che ribadire in forma nuova idee già espresse dal De amore di Andrea Cappellano, un testo fondamentale della letteratura medievale, da cui era germinata la concezione cortese dell’amore. Sostenevano i teorici dell’amore cortese (pensiero che condizionerà società e letteratura dall’XI al XIII secolo almeno) che l’amore è il sentimento più alto che l’uomo possa provare. È esercizio d’elevazione d’animo e di perfezionamento morale; esperienza totalizzante e pervasiva, per cui il cavaliere viene completamente soggiogato dal potere che la donna/domina detiene sul suo cuore. Che poi tale donna si collocasse sempre al di fuori del rapporto matrimoniale, che fosse insomma donna d’altri era particolare trascurabile e certo lo fu fino alla Francesca di Dante, a voler sottolineare come la ragione non può nulla ove si parli d’amore.

Studi storici e sociologici di lungo corso hanno in realtà chiarito come tale concezione adombrasse matrici ideologiche e di potere ben più profonde e strutturate. Dietro l’amore cortese si nascondeva, infatti, la dinamica stessa dell’omaggio feudale. Il cavaliere (figura centrale dell’immaginario e della società medievale) era legato da una fede profonda e viscerale al suo feudatario, ma nel medesimo tempo - e con il medesimo trasporto - era legato alla sua dama (spesso coincidente con la signora di palazzo), a cui faceva omaggio delle sue conquiste, della sua vita e del cuore che metteva in tutte le imprese compiute nel suo nome. Insomma la donna/domina non era altro che un alter ego, una figura del feudatario e il rapporto d’amore e devozione che la legava al cavaliere era il riflesso, nel mondo femminile, del rapporto di subordinazione che quello stesso cavaliere doveva mantenere nei confronti del signore. Tuttavia, per questa perversa strada, la società cortese finì per sancire come legittimo un amore adulterino e sensuale; un amore che, per sua stessa costituzione, era passione folle e irrazionale. Ed è questo che Dante contesta alla sua Francesca e a quella tradizione cortese di cui lui stesso era stato colpevolmente partecipe e diffusore. Come tanti altri poeti e letterati, anche lui aveva contribuito non poco, in giovinezza, ad avvalorare tale idea incauta dell’amore, basata su rapporti di squilibrio, di asservimento e di potere. E fu lo stesso poeta a porre rimedio alla questione.

È lui infatti - ormai figlio di una temperie culturale in piena evoluzione stilnovista - a introdurre, per la prima volta, un’idea nuova e incredibilmente superiore della donna e dell’amore. Per Dante l’amore determina una elevazione morale e la determina a prescindere dalla corresponsione di quello stesso amore. Nelle cosiddette poesie della lauda che comprendono i capitoli 18-27 della Vita Nuova (la prima importante opera dantesca), Dante, dinanzi alla scelta di Beatrice di non ricambiare più le sue attenzioni col saluto (dal latino salus-salutis nel senso volutamente ambiguo di saluto/salvezza), prima sta male e si dispera, poi comprende che la gioia vera di quell’amore sta nella possibilità stessa di esperirlo e non nella contropartita del ricambio. Insomma, Dante introduce l’idea che l’amore innalzi l’uomo non in quanto strumento di possesso di qualcosa o di qualcuno, ma in quanto sentimento che permette di sperimentare la pienezza di vivere, di credere e di sperare. Da questo punto di vista l’amore, slegato da ogni vincolo utilitaristico e - direi - profano, può diventare esperienza di elevazione morale che si stacca dal terreno e guarda in alto, alla sua essenza divina. Dante si salva - dal dolore della morte e dalla morte spirituale - perché Beatrice gli insegnerà che l’amore è la strada per diventare uomini migliori e per transumanarLaddove Francesca resta confinata a un’idea di amore come dominio e come violazione, lo splendore di Beatrice si configura invece come “luce intellettual, piena d’amore” (Paradiso, XXX, 40) ossia come espressione di un amore illuminato dall’equilibrio della ragione.

 Ma Francesca non è solo vittima del suo peccato irrazionale, è anche vittima concreta di Gianciotto, di un marito che rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’amore, un’altra faccia in cui la donna era e restava oggetto di scambio e mercanzia di potere, facile preda di logiche che mettono al centro il corpo, il suo possesso e il dominio incontrastato su di esso.

Quello di Francesca è, di fatto, il primo femminicidio raccontato nella storia della letteratura italiana, a sugello di quanto l’amore - in ogni tempo e in ogni dove - possa diventare esperienza deviante e devastante se non sorretta da una visione superiore. I Greci avrebbero, in questo caso, parlato di manía (μανία) ossia di un amore che punta al possesso completo ed esclusivo dell’oggetto del desiderio. E forse avrebbero anche aggiunto che, in tali frangenti, l’unico rimedio restava la philautía (φιλαυτία) ossia lo sviluppo di un adeguato e doveroso amore di sé, un amore che spinga a comprendersi, a migliorarsi, a conoscersi, a volersi bene nonostante i propri limiti. Chissà se anche Rilke, tanti anni più tardi, sarebbe partito dalle medesime riflessioni immaginando che Un giorno...


                            Un giorno esisterà

 Un giorno esisterà la fanciulla e la donna,
il cui nome non significherà più soltanto un contrapposto al maschile,
ma qualcosa per sé,
qualcosa per cui non si penserà a completamento e confine,
ma solo a vita reale: l’umanità femminile.
Questo progresso trasformerà l’esperienza dell’amore,
che ora è piena d’errore,
la muterà dal fondo,
la riplasmerà in una relazione da essere umano a essere umano,
non più da maschio a femmina.
E questo più umano amore somiglierà a quello che noi faticosamente prepariamo,
all’amore che in questo consiste,
 che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda.

                                                                                                            Rainer Maria Rilke                                  


Risale al 23 gennaio 2024 l’ultima Audizione dell’Istituto Nazionale di Statistica per conto della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. Il documento, un malloppo di ben 49 pagine, riporta i più recenti dati statistici sulla violenza di genere. In accordo con quanto stabilito - a marzo 2022 - dallo “Statistical framework for measuring the gender-related killing of women and girls (also referred to as “femicide/feminicide”)”, anche l’Italia concorda nel definire omicidi di genere, comunemente detti femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Sinteticamente, in tale definizione rientrano tre tipologie di gender-related killing: gli omicidi di donne da parte del partner; gli omicidi di donne da parte di un altro parente; gli omicidi di donne da parte di un’altra persona, conosciuta o sconosciuta, che avvenga attraverso un modus operandi o in un contesto legato alla motivazione di genere. I dati relativi ai femminicidi commessi nell’anno 2023 e diffusi dal Ministero dell’Interno indicano che oltre la metà di tali omicidi sono attribuiti al partner o all’ex partner della donna uccisa e circa il 20% ad altri parenti; 4 omicidi su 5, quindi, avvengono nell’ambito familiare ristretto o allargato. Nel 2022, anno per cui si dispone di informazioni più dettagliate, l’età media delle donne vittime di omicidio è stata di anni 55,1 (46,8 per le straniere). Questo dato viene spiegato con la presenza di un elevato numero di donne in età avanzata uccise da persone a loro legate da lungo tempo (partner o ex-partner), con lo scopo dichiarato di porre fine a diverse tipologie di situazioni critiche; nessun uomo, invece, viene ucciso dalla propria compagna adducendo questi stessi motivi. In generale, nei casi di omicidio di cui si è scoperto l’autore, il 92,7% delle donne decedute è vittima di un uomo. Per l’anno 2022 i femminicidi presunti sono stati 106 su 126 omicidi di donne (nel 2021 erano stati 104 su 119 omicidi; nel 2020, 104 su 116). Nel 2024, anno per il quale si redigerà un report dettagliato solo alla fine, sono già stati commessi oltre 90 femminicidi. Una vera strage, in cui spicca l'alto numero delle vittime over 70, uccise dai partner dopo matrimoni o convivenze lunghissimi. Ma i più recenti fatti di cronaca ci insegnano che il fenomeno ha avuto un’impennata preoccupante anche tra i giovani e i giovanissimi. 

Dovremmo interrogarci seriamente su cosa voglia dire questa mattanza delle donne. Perché, a otto secoli di distanza dai fatti che videro coinvolti Francesca e il suo aguzzino Gianciotto, non possiamo più parlare solo di divario di genere, di mancata emancipazione, di persistenza della struttura sociale patriarcale. Ci dev’essere, nella nostra società, un anello che non tiene e tale anello va ricercato, probabilmente, nella spinta persistente a un’idea deformata dell’amore. Disamore. Da cosa deriva oggi l’inettitudine ad amare? Sarà che in una società dove l’insuccesso non è più consentito e dove la vita sembra costretta a una continua spettacolarizzazione del normale (e pure del dolore) per essere qualcuno bisogna possedere, fino in fondo consumare, fino all’osso prosciugare? E poi cosa bisogna esattamente possedere? Il dominio assoluto su una corporeità - quella femminile - che per essere emancipata sembra fin troppo stereotipata, necessaria, ostentata? O bisogna piuttosto mantenere il controllo su un’esistenza che compensa nello stigma della finta perfezione la fragilità intrinseca di chi la vive? Sarà che viviamo un mondo troppo esigente, troppo performante, troppo disumano? Sarà che oggi non c’è più posto di potere a cui si possa veramente ambire dall’angolo oscuro della propria normalità di uomo? Sarà che l’incapacità di affermare un proprio ruolo è qualcosa che rode dentro, a poco a poco, e che mina nel profondo le radici dell’affezione? Forse nasce da qui questa distorta esigenza di aggrapparsi al conservatorismo del passato; questa deleteria riscoperta di obsoleti ambiti di rivalsa; questo sterile ripiegarsi nella ristretta dimensione della dittatura affettiva, l’unico spazio in cui si può rimanere centro significante (o dominante) della vita altrui. Forse le donne sono storicamente dotate di un tessuto genetico più versatile e resiliente; forse hanno più dimestichezza con la morte e col dolore o forse la società chiede loro troppo e - al contempo - le lascia libere di essere sempre meno di quanto potrebbero diventare. Forse gli uomini hanno visto sgretolarsi troppi strumenti di potere tra le loro mani; forse in tanti questi strumenti non hanno saputo sostituirli con l’amore; forse la philautía resta ancora appannaggio di pochi; forse in troppi casi all’antéros (᾿αντέρως), all’amore reciproco basato sull’accoglienza e sull’ascolto (però questi Greci...), si preferisce il narcisismo del tornaconto personale.

Fra tanti forse però la cosa certa è che, al netto delle dinamiche scatenanti, dovremmo - a distanza di secoli - riappropriarci delle parole più adatte a parlare dell’amore. Dovremmo chiederci quando gli appellativi comunemente riservati alle donne siano precipitati verso gli *asterischi* da sottotitolo di tanta musica rap/trap; dovremmo capire perché, in nome della libertà della parola, si veicola alle nuove generazioni un lessico violento e volgare come normale; dovremmo capire perché la pornografia abbia così tanto a che fare col non verbale riferito al femminile; dovremmo interrogarci su quale impatto può avere il compiacimento macabro di certe trasmissioni televisive sul sentire comune; dovremmo capire che la violenza, o l’antidoto ad essa, nascono sempre - prima - sul piano verbale.

Dante è riuscito a trovare le più alte parole d’amore della nostra tradizione per consegnarci la violenza assoluta d’un eterno dolore, noi siamo ancora in grado di usare la parola in questa direzione?

 






Riferimenti bibliografici:

Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, a cura di Tommaso Di Salvo, Zanichelli, 1993.

Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di Stefano Carrai, Rizzoli, 2012.

Andrea Cappellano, De amore, trad. J. Insana, SE, 2021.

Roberto Carnero – Giuseppe Iannaccone, Classe di Letteratura, vol. 1, Treccani, 2022.

Istat, Saverio Gazzelloni, Audizione dell’Istituto Nazionale di Statistica, 23 gennaio 2024.

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, 1980.

Lorenzo Rocci, Vocabolario greco-italiano, 2011.

 

Immagini in sequenza:

Ary Shaffer, Francesca da Rimini e Paolo Malatesta appaiono a Dante e Virgilio, 1835, olio su tela, Wallace Collection, Londra.

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1862, Birmingham, Museum and Art Gallery.

Jean Auguste Dominique Ingres, Paolo e Francesca, dal 1814 in varie esecuzioni, varie collocazioni.

Rainer Maria Rilke, Praga 1875 – Les Planches 1926.

 

 







 

Commenti

  1. Grazie per questo accurato saggio che, muovendo-sfogliando le giuste corde-pagine della letteratura, con una sapienza tanto eccezionale quanto chiara e lineare nell'argomentare, ci parla di dialogo e parità di genere. Grazie, perché hai creato un vero gioiello. Stop ai femminicidi!

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    1. Grazie Maria Pia La Torre, per la paziente lettura e per aver colto il cuore dell' argomentazione. Dovrebbe essere tempo di un autentico dialogo di genere, alla pari. Purtroppo non lo è, anzi.

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  2. anna spissu18/11/24, 09:18

    Grazie per questo articolo. E per le domande, su cui tutti siamo chiamati a interrogarci e rispondere. Trovare il senso profondo dell' amore in una società che ne parla tanto ma distrattamente e anche violentemente come un oggetto di consumo. Stop ai femminicidi

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  3. Grazie per la lettura, Anna. E grazie per aver colto il senso esatto della mia riflessione.

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