CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - La morte dell’oniromante

 

Anna Segre

Morì la mia psicoterapeuta. Si suicidò. E tutto cambiò.

Quella morte creò una specie di urgenza, in me. Come la campana dei pompieri: presto! Presto! La tua vita brucia, la tua casa crolla, la tua città è in macerie, reagisci! Scappa! Bùttati!

Partii. Andai dall'altra parte del mondo, ebbi bisogno di imitarla, di essere superiore al mio stesso coraggio sociale, una nobiltà degli atti.

Com’era lei? Com’era veramente? Ma che ne sapevo io…

La junghiana metteva al mondo mondi. E lo faceva naturalmente, come se la sua intelligenza fosse un utero, in cui tempi e modi erano governati dalle maree di altri pianeti perché lei ne ammetteva l'ipotetica esistenza, mentre io ho difficoltà a credere in ciò che non è scientificamente provato.

La sua morte fu un'euforia, uno spiccare, un'altra vita, il disvelamento delle carte astrali, la luce su un mistero. Ero come eccitata, in un misto di dolore e furia, la cosa andò avanti tre mesi interi.

Per evitare l'annegamento depressivo e tener fuori la testa dall'acqua, innescai una fase maniacale, consumandomi in pirotecniche partecipazioni a ogni evento, in ristrutturazioni visionarie, in progetti, castelli di carte.

Siccome sono disciplinata, ossessivamente disciplinata, sull'assunzione di cibo, l'igiene, il ritmo sonno veglia e la puntualità, ci misi parecchio a rendermi conto dello scialo energetico: avevo un fomento riempitivo che copriva l'horror vacui, perché il silenzio dell'universo che l'assenza di lei spalancava sotto i miei piedi era un rombo terribile.

Aveva fatto bene, se quella era la sua volontà, a suicidarsi.

Io la capivo. E la cercavo nel coraggio, nella postura. Sapeva che non sarebbe stata compresa, una bonobo regina così lungimirante, di sicuro lo sapeva. Essere capiti è meno prioritario della propria volontà. Dovevo riparametrare le importanze.

Dare senso ai propri atti, spalancarsi all'ignoto, al sacro, sapere di non sapere con ogni fibra, fino all'accettazione dell'assoluto, cioè senza diluizioni, senza ritorni, al di là.

Mi sembrava di dover e voler accettare io stessa di non capire, e che quella sfocatezza fosse  giusta, che me la dovessi tenere dentro come una cognizione nuova:  inginòcchiati davanti al groviglio degli incomprensibili disegni di Dio, perché a te il bandolo non è dato.

Procedetti così, come un apostolo per le strade della Giudea, disorientata, cercando il filo della narrazione per un vangelo che l'esprimesse.

Il cambiamento fu catastrofico, nel senso letterale del termine 'voltare sotto': il mio mondo si era ribaltato.

La nuova junghiana (corsi ai ripari di una terapia, se non altro per il lutto) mi trattava come un ortopedico di pronto soccorso, attenta alla priorità degli interventi, con l'occhio vigile al trauma da stress che monta sotto le fratture. Poveretta, ad ogni seduta le imputavo di non essere Lei, manco fossi una figlia in affidamento, e non cedevo alla disperazione come i bambini stanchi che non vogliono dormire, tormentati dall'ambivalenza tra la spossatezza e la paura di scomparire nel sonno.

Quando l'ombra cominciò a lambire i miei muri e i risvegli furono vuoti di sogni,

quando ogni interazione diventò una spesa esosa della mia mimica facciale,

smisi di dedicarmi alacremente a contrastare il rombo.

Insomma, quando la fase maniacale, avvinta all'ultima molecola di serotonina,

crollò rovinosamente a valle,

mi sedetti inattiva,

perso il senso,

e divenni rarefatta,

distratta dal pensiero,

trovavo sollievo nel non percepirmi,

nel non contattare l'interno.

Per me non era morta una stimata collega.

Per me si era suicidata

di delusione e noia,

di dolore e solitudine,

di disincanto e tristezza

lei che era stata la mia forza divergente, l'unica persona disposta a difendermi, la fonte di idee e nessi, quella, l'unica, che vedendomi intera, mi considerava ragionevole, comprensibile, giustificabile.

Per me non era morta solo la mia terapeuta, l'unica che io riconoscessi come tale nel mio monoteismo di sofferenzaper me con la junghiana se n’era andato l'orizzonte, o perlomeno, la visione di un futuro possibile, la prospettiva, forse trompe l'oeil, ma pur sempre prospettiva, per me.

Soffrivo, sì. E non riuscivo a dire niente su quella sofferenza. Si era rotto lo specchio e raccoglievo le schegge, ognuna riflettente un pezzo, nessuna l'intero.

Sentivo tutta la mia pochezza che si affannava, e la mancanza della sua mente come una sete.

Le mie amiche la chiamavano in mia assenza la Santa Assoluzione, perché, dicevano, mi difendeva dalla mia autoimmunità ferocemente. Ferocemente, così dicevano.

E quanto piansi a quest'idea. Che qualcuno mi difendesse ferocemente da tutto e tutti, anche da me stessa, solo per il fatto che esistevo. Era la prima volta, capite? Io cerco di meritarmi le cose e quasi sempre non me le merito, tanto meno la ferocia di difesa. 

Figurati la gratuità.

Junghiana dell'assoluzione, Oniromante che mi hai scartocciato le ali, creatura dall'imperscrutabile volontà.

Non sapevo con chi prendermela. Ero incazzata. Per quanto cercassi, nessuna posizione era antalgica. Sentivo continuamente il dolore della sua mancanza. Solo la grandezza della natura, o la bellezza, mi alleviavano.

Forse era nelle scogliere di Moher, nel blu del ghiacciaio di Calafate, nell'enormità dei picchi del Bianco, forse l’avrei trovata negli scaffali della biblioteca di Mafra, nel peso dell'acqua di Iguazù che consuma il salto e scava verso il centro della terra.

Dicevo, come se questo potesse alleviarmi: Voglio andare sul mare davanti a Brisbane a vedere le balene passare.

 

 


Commenti

  1. Immensamente utile questo racconto monologo bello e ricostruttiva di un filo che serve all' io

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  2. Non lo trovo piu. M.Pia Quintavalla

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