STELLE CONTROVENTO - Maria Pia Latorre - Ora che “tanto di Cappello” ha un significato in più: Omaggio a Pierluigi Cappello

 

Maria Pia Latorre

Sono sette anni che Pierluigi Cappello non è più con noi. Il 1 ottobre 2017 se ne andava, all’età di cinquant’anni, lasciandoci un vuoto su cui, per ora, è bene tralasciare e, in eredità, un patrimonio poetico inestimabile, racchiuso in quello scrigno che è Un prato in pendio, opera della resistenza umana e della forza della poesia capace di dare un senso di pienezza all’esistenza e al farsi nelle cose, assorbendone da esse vita. Una vita, la sua, che andrebbe conosciuta anche soltanto come esempio di coraggio e resilienza, al di là degli esiti del suo percorso poetico.

In questo senso Questa libertà, l’autobiografia romanzata che consegnò alle stampe nel 2013, ci aiuta a comprenderne i tratti umani e caratteriali. Una storia che inizia con un Pierluigi bambino, di soli cinque anni di età, e si conclude con il diciottesimo compleanno, poco dopo il devastante incidente stradale. È la storia di un’autoeducazione all’osservazione e alla ricerca della bellezza, una bellezza stanata ovunque, intravista nella terra brulla come nelle corsie di ospedale.

 

Nato a Gemona del Friuli l’8 agosto 1967, in una famiglia operaia infissa nel nerbo roccioso delle Alpi circostanti, Pierluigi è cresciuto, con la montagna sotto le scarpe e nell’anima, nel piccolo centro di Chiusaforte, luogo che ricorrerà in molte sue poesie. Nel sangue la civiltà contadina e montanara sono vettori di solidità.

Da bambino, appena scoperto il piacere della lettura diviene un accanito lettore e si costruisce una solida cultura da autodidatta, non potendo ricevere aiuti in tal senso dalla famiglia, dedita al lavoro manuale per sopravvivere. Nelle sue memorie il ricordo dell’enciclopedia per ragazzi I Quindici, un must, negli anni Settanta, di tutte le famiglie operaie che credevano al valore culturale come possibile ascensore sociale.

Aveva nove anni quando, la sera del 6 maggio 1976, il terremoto si abbattè sulla sua casa a Gemona, che fu uno dei centri più colpiti da quello che è passato alla storia come il “Terremoto del Friuli”. Molte furono le vittime di quel sisma devastante come molti furono gli sfollati.

Lui e la sua famiglia furono tra questi, spostati a Cassacco, in un prefabbricato regalato dall’Austria, dove visse tutta la vita e che pian piano riempì a dismisura di libri.

Cappello frequenta l’Istituto Aeronautico, a Udine. In quegli anni si appassiona alla corsa. Era un velocista; suo miglior tempo 100 metri in 11 secondi e 4, risultato di cui andò sempre fiero.

Ma a diciassette anni il destino lo attendeva dietro una curva. Un pomeriggio accetta un passaggio in moto da un amico. La moto esce di strada andandosi a schiantare su una roccia. L’amico muore sul colpo mentre lui riporta lesioni gravissime che lo costringeranno per sempre su una sedia a rotelle.

Non fu l’ultima volta che la sorte gli venne avversa, ma mai cedette al vittimismo e, anzi, riuscì a trasformare il tragico destino in strumento di affinamento, una sorta di cassetta degli attrezzi per imparare a smontare e rimontare frammenti scomposti della sua vita in un unico organico quadro che è il coerente capolavoro di parole che poi ha creato e ci ha lasciato in dono. Si addicono perfettamente i versi di CardarelliMa il mio destino è vivere/ balenando in burrasca”, a lui gabbiano di crosa tra le nevi, che diffidò dagli “inganni della pianura”; questi versi che egli stesso scelse per sé. 

All'Università di Trieste studiò Letteratura. Nel 1999, insieme a Ivan Crico, creò la collana di poesia “La barca di Babele, nella quale sono stati pubblicati numerosi autori friulani, triestini e veneti. “Sono devoto all’anima di grafite della matita”, ci ha genuinamente raccontato nella Poesia scritta con la matita, uest’uomo dalla sensibilità minerale.

Fu insignito della laurea honoris causa in Scienze della formazione dall'Università di Udine nel 2013, pochi anni prima che una malattia tumorale lo portasse alla morte. 

La prima opera pubblicata con la casa editrice Campanotto, di Udine è del 1994 e s’intitola Le nebbie; nel 1998 pubblica La misura dell’erba; l’anno dopo arriva un’opera di grande successo nella quale decide di esprimersi in dialetto friulano, entrando in dialogo col grande friulano di Casarsa, che sarà per lui fonte d’ispirazione, anche se molto distante la sua poetica da quella pasoliniana.

Si tratta di Amôrs, contenente il famoso Il me Donzel, che si apre con l’O me donzel! di Pasolini. Del 2002 è Dentro Gerico, dell’anno dopo Dittico, Poesie in italiano e friulano. Nel 2006 Crocetti decide di pubblicarlo ed esce Assetto di volo, che contiene le raccolte precedenti più tre poesie inedite.

A questo punto Pierluigi Cappello è poeta nazionale, stringe amicizie con scrittori e artisti del calibro di Lorenzo Cherubini (Jovanotti), in Friuli e in tutta Italia. Nasce l’amicizia con lo scrittore Eraldo Affinati che cura la postfazione di Mandate a dire all’imperatore, sempre per Crocetti, nel 2010.

Esce per BUR, nel 2013, Azzurro elementare, con prefazione dell’amica regista Francesca Archibugi, che all’interno della prefazione che ha come frase d’esordio un memorabile verso di Cappello, “Sono nato al di qua di questi fogli”, scrive: Ho pensato che i grandi poeti si trovano a un crocevia della storia, che l’essere nati a Roma oppure a Gemona del Friuli possa essere determinante per lasciare segni indelebili”.

Un poeta, Cappello, che è alla continua ricerca dell’istinto e che si aggrappa alla storia umana, tanto da tentare una inedita sopravvivenza utilizzando entrambe le componenti (istinto e storia) come le bacchette di un rabdomante. Ma dalla pura e semplice sopravvivenza Cappello riesce a liberarsi e a librarsi con senso di verticalità, in un respiro ad alta quota che ne amplifica spazi e sonorità. Soprattutto quando a parlare è il dolore, a cui lui dà compiuta voce, per sé ma soprattutto per i “senza voce”.

«L’ospedale t’inghiotte cittadino poi ti digerisce e infine ti trasforma in paziente: un bolo di passività cui poche decisioni sono possibili. Ciò si avverte in genere durante i trasferimenti da un reparto all’altro. Sei condotto, non conduci. E questo affidarti all’orientamento degli altri ti schiaccia ancora di più nel tuo letto di malato. La tua storia, i posti che hai attraversato, tutto te stesso, si riduce alla tua malattia, al tuo problema clinico muto e senza volto, che viene misurato, pesato, valutato e trasportato da un luogo all’altro come qualcosa di astratto che non mantiene i tratti dell’umano, in un processo di semplificazione dei termini brutale e, forse, non necessario».

Una rigorosa e nello stesso tempo pietosa fotografia dell’impatto ospedaliero che ci coinvolge tutti, nell’umana precarietà. Il poeta usa se stesso come cavia per scendere nei meandri del dolore, lo accoglie, lo manipola, lo plasma, ne fa ora lui un bolo sì, ma non di passività, bensì di fremente attività vitale.

«Il rumore da centrifuga della TAC si avviò un’ultima volta, poi si spense lentamente, riassorbito da se stesso, mi sentii muovere, il ripiano scorreva lungo le rotaie per estrarmi dal tubo catodico, poi la stanza si riempì di un silenzio e il silenzio si fece materia. Un battito di ciglia che si cristallizzò sulla superficie della macchina e nei recessi del mio cervello. La pace divenne un peso non misurabile e sostò per un istante dentro tutto il corpo...».

L’uomo e la macchina collegati da un battito di ciglia, un esile invisibile filo di causalità in cui il silenzio si fa materia che richiama pacifica alleanza. Negli ultimi anni della sua vita Pierluigi stava lavorando intorno all’esperienza ospedaliera e ai risvolti della malattia con un ampio progetto di scrittura che, ahi noi, non è riuscito a concludere e di cui, in questi stralci, si può apprezzare la smagliante bellezza.

In quel memorabile 2013 Azzurro elementare riceve un grande successo di pubblico e critica tanto da portarlo sulla scena della notorietà e contribuire a fargli tributare la laurea honoris causa. Di particolare intensità il discorso che pronunciò in quella occasione presso l’Università di Udine. Avvenimento che ci ha consegnato, impressi in fotogrammi, i tratti di un bell’uomo dallo sguardo limpido, dal sorriso straordinariamente mite, ma dagli occhi irrequieti che proprio non riescono a celare il guizzo poetico che in lui alberga. Ad ascoltarlo nell’eloquio, poi, la voce incanta, parole di saggezza antica e di lucida profondità, tra una battuta ed una celia per nascondere l’imbarazzo. Il valore della tradizione e delle radici sono il tema sviluppato nel discorso, elementi che si sono rivelati fondanti nella sua arte poetica. Il video è reperibile in rete e merita di essere cliccato più volte.

L’anno dopo Cappello dà alle stampe, per Rizzoli, Ogni goccia balla il tango. Rime per Chiara e altri pulcini, dedicato alla sua adorata nipotina Chiara.

Nell’aria di maggio/ la bella farfalla/ dall’ala ch’è gialla/ mi pare un miraggio./ È un dono di Dio/ che sembra un po’ un gioco/ e , scusa se è poco,/ un poco è anche mio”, una raccolta di ricami di leggerezza buona per tutti.

Del 2016 è Stato di quiete, l’ultima sua raccolta, sempre per BUR, con prefazione di Jovanotti che, a proposito del loro rapporto artistico, scrive: «Mi sento osservato da queste poesie. Mi capita, in questi giorni, dopo averle lette, di ritrovarmele intorno nei momenti più disparati, come il ricordo del profumo della mia mamma […] Penso a cosa penserebbero queste poesie di me, di quello che faccio, della mia vita che vaga nel dappertutto. “Dappertutto non è il posto in cui cercare” (verso di Cappello) mi risuona nel cuore mentre cerco dappertutto. Non mi sento giudicato, mi sento piuttosto amato da queste poesie ...».

In Stato di quiete Cappello scriverà poesie testamentarie; di struggente bellezza quelle dedicate al padre e alla madre, ai natali trascorsi nella piccola comunità montana e ai parenti nei giorni della festa, alla sua gente e a chi combatte nemici invisibili dentro il proprio corpo: Mi dispiaceva morire per il verde dei prati/ e le nuvole del cielo, lasciarli soli senza di me./ Un uomo per vivere a piombo dovrebbe stare dov’è, lasciato stare”.

La componente naturalistica in Pierluigi Cappello è un’altra caratterizzazione che fa della sua poesia specchi azzurri di limpida acqua corrente. L’uomo sta bene nella natura; c’è un ancestrale cordone ombelicale con lei, madre e generatrice di vita. Il poeta è in lei e da lei trae la propria originale cifra di scrittura. Parole infilate in cristalli di semplicità di bellezza disarmante, così com’è semplicemente e potentemente disarmante la natura quando ci accostiamo alla sua essenza. Parole semplici da accogliere nei palmi delle mani a conca, come semplice è una foglia.

Ma solo lo scienziato sa cosa si nasconde dentro una foglia di complesso e di perfettamente congegnato; una catena d’ ingranaggi che racchiudono l’imperscrutabile segreto della vita.

Una foglia è una foglia. Da sempre il mondo lo sa ma da sempre ciò sorprende, e “finché quella donna del Rijsmuseum/ nel silenzio dipinto e in raccoglimento/ giorno dopo giorno versa/ il latte dalla brocca nella scodella, / il Mondo non merita/ la fine del mondo”, come canta la “Virgola antiquata” Wislawa, perché per il Nostro, arte e natura rappresentano un unicum; l’uno vive e respira dell’altro in un difficile e combattuto progetto di ricerca di armonizzazione dove non si è riusciti a giungere ancora ad una sintesi. Ed è una fortuna, per certi versi.

 

 

Costruire una capanna

di sassi rami e foglie

un cuore di parole

qui, lontani dal mondo

al centro delle cose,

nel punto più profondo.

 

(da Stato di quiete)

 

Pierluigi Cappello, nella sua breve carriera artistica, ha vinto diversi premi letterari, tra i quali il Premio Montale e il Premio Bagutta. Ha composto anche per la prosa, in particolare Il dio del mare e Questa libertà, oltre ad alcune conversazioni culturali. Ha curato delle traduzioni dal friulano difendendo fortemente il valore delle radici linguistiche come bene da salvaguardare e della lingua madre come principio d’identità e di identificazione.

Nella lirica che segue si respira la perfetta simbiosi del poeta con la natura; tanto è stato il tempo di osservazione e di dialogo da lui ad essa dedicato quante le risposte di vita che egli è riuscito ad ottenere. Pierluigi Cappello ce le regala come florilegio di speranza, pietra d’inciampo per il mondo, riscatto di salvezza per i puri di cuore.

 

Achì soi jo, par dentri

 une gnot che no je

e cidin tal cidin

florît di piere e gno.

Achì soi jo, a scurîmi

cul scurîsi de gnot

frescje e scuride ator ator

come di scune.

Achì soi jo, ch’o strenç

lis mans tor dai zenôi

i zenôi dongje il cûr

dentri il cercli dai vôi

il cercli da la lune

fin a vignî bambin.

Io sono qui, dentro una notte che non c’è e silenzioso nel silenzio fiorito di pietra e mio. Io sono qui, a scurirmi con lo scurirsi della notte fresca e scurita intorno come di culla. Io sono qui, che stringo le mani alle ginocchia, le ginocchia accanto al cuore, dentro il cerchio degli occhi il cerchio della luna fino a tornare bambino.

 

Molti i saggi critici scritti su Pierluigi Cappello, come molti gli appassionati della sua poesia, come, in primis, Anna De Simone, che ne ha curato la bibliografia, insieme a profondi conoscitori come Alessandro Fo, Gian Mario Villalta, Giulia Calligaro e Mary B. Tolusso. Ma hanno scritto di lui in tanti, da Franco Loi a Carlo Sgorlon, da Maurizio Casagrande a Biancamaria Frabotta, da Isabella Bossi Fedrigotti a Maurizio Cucchi. Certo la stagione è solo agli inizi e molti ancora gli aspetti da indagare nella sua poetica.

Concludo proponendo alcune poesie a cui sono particolarmente legata.

Un abbraccio al cielo

Ciao, Pierluigi

 

Poesia scritta con la matita, da Azzurro elementare


Sono devoto all’anima di grafite della matita:
un solo colpo di gomma e il segno lasciato sparisce,
sentieri imboccati con leggerezza
si riconducono alla docilità della via maestra
i crolli vengono evitati con un’alzata di spalle,
l’imprevisto è un vecchio con il pugnale spuntato.


L’anima di grafite non conosce soste, esitazioni:
nel suo stesso procedere in avanti
ci chiama alla possibilità del ritorno,
nel suo segno scuro riposa la dolcezza del bianco
e Angelina torna a sorridere
tenendo per mano un bambino
abbagliato dal sole.

 

 

Da lontano, da Azzurro elementare

Qualche volta, piano piano, quando la notte

si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio

e non c'è più posto per le parole

e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno

come una perla intorno al singolo grano di sabbia,

una lettera alla volta pronunciamo un nome amato

per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo

nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo spezzato.

 

 

 


 [1]     Tanto di Cappello ” è  il titolo di un articolo di Franco Loi comparso il 7 gennaio 2007 su “Il Sole 24 Ore”.


Commenti

  1. Brava, bel ritratto di un uomo e poeta vero, ancora oggi rimpianto da chi lo ha conosciuto e frequentato. Forse, a volte, questo conta più di tanta fama effimera...

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