Maura Baldini - Rinuncio

Maura Baldini

Il sacrificio di sé per il bene altrui è oggi un retaggio, spenta parola evangelica, vizio di martiri frettolosamente riqualificati come poveri disgraziati, o addirittura psicotici, masochisti.

D’altronde, la reputazione del sacrificio di matrice religiosa non è delle migliori. Basti solo rammentare che a esso è storicamente consustanziale il violento gesto con cui si sradica un ente dalla sua condizione naturale, quella profana, per assegnarlo alla dimensione del sacro. Pura e cruda coazione allo stravolgimento della natura ontologica dell’essere umano.

Inoltre, viviamo in un tempo in cui si proclama a gran voce il diritto (sic!) alla felicità, come se la felicità fosse un bene tangibile e persino normabile. Donde la sfilza di decaloghi contenenti le istruzioni per essere felici, il lavaggio del cervello sul sano egoismo che cura, la propalazione martellante del mantra Think positive e, da ultimo, ma non per importanza, l’abolizione dell’empatia in favore di atteggiamenti autarchici, solipsistici, vanesi e cinici.

Chi compie azioni generose dsinteressate, anche a proprio discapito, è un paria, uno sfigato, oppure un ciarlatano che cerca visibilità (talvolta, purtroppo, l’accusa non è priva di fondamento). Ma io qui parlo di chi agisce nel mero interesse dell’altro, privando se stesso di qualcosa – che sia primordiale o risibile, poco importa – e lo fa senza alcuna richiesta in cambio, senza alcuna taciuta finalità di gloria o contropartita. Io parlo di chi persegue la purezza del gesto, cieco a se stesso, pronto al fallimento, alla perdita, all’ingratitudine. Insomma, secondo l’etica dell’oggi, un povero scemo.

Lo confesso: cerco, da sempre e disperatamente, i poveri scemi, quelli che sulla soglia stretta fanno un passo indietro per lasciarti passare. Cerco da sempre i poveri scemi perché io lo sono. E non è un vanto o un’onta, ma struttura d’essere, traccia fondante, collagene dell’anima. Da anni mi chiedo le ragioni della prospensione alla rinuncia per salvaguardare il benessere di chi amo. Parlo di chi amo perché, naturalmente, non sono uno di quegli spiriti eletti che si sacrificano per lo sconosciuto. Scelgo ogni giorno chi amare (nel senso più lato del termine) e so di potermi sacrificare a suo vantaggio. Nondimeno, mentre scrivo questo sento rivoltarsi gli psicanalisti, capto il ghigno degli imperturbabili, dei cinici, degli avvelenati dalla frustrazione, dei cerebrali e degli affabulatori; sento rivoltarsi gli egocentrici, i narcisisti, gli strateghi, gli smaliziati, i disonesti. E sento rivoltarsi persino una parte di me, perché il sacrificio, come ho in precedenza affermato, da un certo punto di vista, è una forma di violenza innaturale.

Di quest’atto, così deprecato e spaventevole, mi interpella da sempre la dimensione della rinuncia, una dimensione che fa orrore non più soltanto agli adolescenti, ingordi di desideri da esaudire, ma anche agli adulti, e persino alle frange senili. Perché la rinuncia spezza il legame con l’immediatezza, con il desiderio, col bisogno, con la pulsione, senza la certezza di raggiungere il fine per cui la si è compiuta. E allora mi chiedo: si può rinunciare a un desiderio e persino a una parte di sé a beneficio d’altri, senza essere considerati psicotici? La domanda non è affatto peregrina, se si pensa che la cultura contemporanea è talmente ostile al concetto di sacrificio che una certa psicanalisi s’affretta a invocare la patologia ogniqualvolta un individuo confessi il proprio spirito d’abnegazione. Naturalmente, io qui non mi riferisco a chi nutre il “fantasma sacrificale” (Massimo Recalcati, Contro il sacrificio), costantemente alterando e deformando la propria personalità in nome di una abnegazione generalizzata e cieca che cela, in realtà, la paura di assumersi il peso della libertà. Casi del genere rimandano alla figura nietzchiana del cammello, incarnazione dell’uomo patologico che vive per prostrarsi, per obbedire, per rinunciare, non già, tuttavia, in virtù di una naturale inclinazione al favore disinteressato, ma per l’incapacità, appunto, di assumersi le responsabilità di una scelta libera. Tali individui, rinunciando all’affermazione di sé per paura, compiono un sacrificio interessato, poiché si illudono che, delegando ad altri la responsabilità, conseguiranno risultati più vantaggiosi. Ma, come dicevo, non sono costoro i soggetti che m’interessano in questo inutile e incauto conversare.

Penso invece a chi, con un atteggiamento di disincanto nei confronti della vita – e non di rassegnazione –, rinuncia a sé per chi ama e, così facendo, realizza il proprio volere, facendo della rinuncia non già una perdita, ma un completamento, l’avveramento di un bene che non è più grande, ma semplicemente aderente all’autenticità del proprio spirito. Uno spirito che, a quel punto, può tornare leggero, come “farfalla o bolla di sapone” (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra).

Ecco, il paradosso, l’antitesi: il peso che cessa di essere tale e si tramuta in volo. Acquattarsi vicino a chi si ama, ascoltarne le istanze, le richieste d’aiuto, soprattutto quelle taciute, soprattutto quelle che per essere accolte ci costringono al sacrificio, ascoltarle e finalmente cedere, cedere e ancora cedere. Cedere una parte di sé per evitare il crollo altrui.

Si può essere fedeli a se stessi rinunciando a una parte di sé? Siamo sempre nel campo del conflitto, dell’antinomia, giochiamo su un terreno rischioso, sul confine che separa l’equilibrio dall’anomalia.

Non conosco la risposta, svezzo i miei giorni nel dubbio.

Ma so che non esiste esperienza di solitudine più radicale dell’assistere alla deriva di chi si ama. Una solitudine che ha il volto abbacinante della propria salvezza e le mani inerti di chi è crollato.

È al cospetto di questa immagine che mi dico, con convizione e con speranza, che la sola cura è quel passo indietro sulla soglia troppo stretta.

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Maura Baldini è cresciuta sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, dove ha esercitato per molti anni la professione di avvocato. Oggi vive a Ginevra e si dedica, fra l’altro, alla traduzione e alla poesia. Di recente, ha tradotto André Malraux e Malcolm de Chazal, curando i seguenti volumi: André Malraux, Occidentali quali valori difendete?, De Piante; Malcolm de Chazal, Plastica, Gruppo Editoriale Magog. Nel 2022, è stata pubblicata per Il Convivio Editore la sua silloge poetica di esordio, La slegatura, opera tra le vincitrici del Premio Carrera 2022. Alcune sue poesie figurano su riviste letterarie e blog. Scrive, inoltre, articoli di cultura per la rivista Pangea e note critiche per altre riviste e blog letterari.


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