I GRANDI IRREGOLARI – Mauro Barbetti su Giuliano Mesa
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Mauro Barbetti |
Ricordo che ad un incontro di qualche anno fa con protagonisti i poeti nati negli anni 80/90, molti di essi, alla domanda quale figura li avesse influenzati di più, risposero con un nome non certo tra i più conosciuti nel panorama culturale italiano: Giuliano Mesa.
Recentemente, poi, la valenza del percorso poetico di questo scrittore è stata rimarcata in un convegno presso l'università di Bologna dal titolo: Cercare forme. L'opera e l'eredità di Giuliano Mesa (Giugno 2023)
Se per Villa si era parlato di auto-annullamento, di dispersione del proprio lavoro poetico, per Mesa si può parlare di rigorosa scelta di marginalità, di rifiuto di qualsiasi esercizio di potere letterario e di radicalità nelle scelte esistenziali e artistiche.
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Nato nel reggiano da modesta famiglia, in gioventù frequenta i circoli anarchici e studia in modo irregolare, ma approfondito, il pianoforte e la composizione musicale. Più o meno negli stessi anni si avvicina alla letteratura, conosce e frequenta a Mulino di Bazzano Adriano Spatola che gli pubblicherà la prima raccolta Schedario (1978) con le edizioni Geiger. Nel 1982 decide di trasferirsi nella capitale dove per qualche anno collabora con alcune riviste (prima “Symbola”, in ambito letterario, dove conoscerà Biagio Cepollaro, uno dei suoi più fraterni amici e poi "Invarianti”. Per descrivere le trasformazioni, in ambito politico). Verso la metà degli anni Novanta si sposta con la compagna cilena di allora nel viterbese dove partecipa al Kollettivo Antagonista dei Cimini e affianca ai pochi lavori redazionali le lezioni di pianoforte per sbarcare il lunario. Nel 1998 lancia il progetto di “akusma” dove convergeranno senza linea predefinita o appartenenza stretta molti poeti, tra cui Buffoni, Frasca, Ottonieri, Voce, Teti, Inglese ecc, interessati, secondo l'intento di Mesa, ad abbattere le distanze ponendosi in reciproco ascolto e risonanza. L'ingresso nel nuovo millennio lo vede impegnato nella sua opera forse più famosa, il Tiresia, che verrà anche portata in teatro con la collaborazione musicale di Agostino Di Scipio e quella visuale di Matias Guerra. Terminerà poi il suo peregrinare umano nel napoletano, dove si ammalerà e morirà nel 2011. La sua ultima raccolta, “Nun”, uscirà infatti postuma e incompleta.
Paolo Zublena l'ha definito l'ultimo dei modernisti e in un certo senso la vita e la poesia di Mesa si collocano in quel crinale di tempo dove il poeta, pur avendo chiaro l'esaurirsi delle grandi verità e fiducie storiche, così come la fede nella scrittura come possibile motore di cambiamento (ribadita in variazioni su tema quasi infinite), non giunge ad abiurare la necessità etica del dare testimonianza, soprattutto ai senza voce, agli ultimi, ai senza speranza della Storia (si pensi ai “sans papier” di Da recitare nei giorni di festa o alle tragedie della contemporaneità descritte nel Tiresia).
Anche il linguaggio di Mesa, fortemente innovativo con il suo socratico dubitare lontano da ogni assertività e con una forte ricerca di assonanze sonore all'interno di un periodare scarno e lacerato, si pone all'interno di questo dualismo: da un lato si fa incertezza, frammento, affermazione di negazione e dall'altro si fa oracolare, diventa ribellione, sperimentazione sonora, ponte gettato verso il baratro.
Ma come sempre, la cosa più interessante è dare spazio e voce ai testi.
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Da Da recitare nei giorni di festa (1996)
Sans papier
VII
Boulevard Sébastopol, le sette e trenta,
le camionette della polizia
(la guerre, la guerre ne passait
pas).
Più di mille, a sirene spiegate,
fucili caschi manganelli
(ils remontaient comme moi dans
la ville,
au boulot sans doute, le nez en bas).
Alle sette e cinquanta la chiesa è
circondata,
dopo venti minuti sono dentro
(i portoni li hanno aperti con
grandi pinze rosse,
je l’ai remarqué).
Le donne cantano, Coindé – il
prete – prega
(question de temps, seulement:
souricière
au fond des boues tenaces et des
banlieues insoumises).
Qualche minuto e poi le donne
urlano,
piangono i bambini, e allora, ecco,
sparano i lacrimogeni, e quei dieci,
quelli che non mangiano da cinquanta
giorni,
sempre fermi lì (j’ai essayé, c’est
pas la peine).
Dopo, in trecento, tutti a Vincennes
(ça me rappelait les convois de la
guerre).
Per i maschi adulti sono pronti i
charter.
Il giorno dopo, verso sera, da
Evreux ne parte uno,
per Bamako(on s’est pas fait d’adieux,
c’est pas la peine).
Le donne e i bambini, un centinaio
in tutto,
li lasciano per strada, alcuni anche
nel bosco.
Qualche bambino ha la bronchite,
qualcuno la diarrea.
Qualche donna, rimasta sola,
vaga per la città
(elle ne voulait plus mourir, jamais
– elle
n’y croyait plus à sa mort).
A rue Pajol, il deposito ferroviario,
la polizia l’ha sùbito murato, con
dentro
i bagagli di quelli là,
che stavano dentro Saint-Bernard
(plus de vie au monde pour personne
qu’un petit peu pour elle
et tout presque fini).
Elle ne voulait plus mourir,
jamais
(le citazioni in francese sono tratte da Viaggio al termine della notte di Celine)
Da Improvviso e dopo (1997)
considera che questo non è più questo
che fuori non è rimasto nulla
fuori più nulla
la strada l’asfalto la polvere
dentro la culla vecchia vuota
immagina che questo non può tornare
nemmeno come un’immagine
dentro più nulla
le ciglia le palpebre l’occhio
fuori la luce calda vuota
considera che questo non è più questo
fuori non è rimasto nulla
dentro più nulla
breve lunga breve, breve lunga breve
lunga breve breve, breve breve breve
Da Chissà (1999)
3.
l’onda che arriva sempre,
la sabbia non asciuga mai.
così dev’essere. ciottolo, alga.
mosche sul muco, verde,
di un altro cane morto.
coda che ha tra le gambe, stanca,
arsa dal sole, e il sale,
a fare l’ombra all’uovo di un crostaceo.
tutto come dev’essere, nell’ordine,
ogni volta che l’onda sparge l’acqua,
sempre, finché dall’alba il sole
batterà sui ciottoli, da farli caldi,
i calli, di un piede dopo l’altro,
la polpa prosciugata delle dita,
la sacca, la risacca, il vento,
il dove, il dove mai sarà.
Da Quattro quaderni (2000)
14
è come se andarsene non fosse che questo,
questo restare, e fare ancora un gesto
(è come se dirlo fosse soltanto vero,
e non più vero, ancora, del non dirlo)
e poi quello che manca mancherà
e ciò che è è ciò che ormai è stato
(e parlane, mio amore, dinne ancora,
fa che sia vero ancora)
(pensa ad un giorno, pensando ancora
a chiuderti gli occhi, finché c’è luce,
a premere ancora, sulla tempia, il nervo che pulsa
(e pensa, se vuoi pensare,
fino a quel buio,
fino alla luce, infine, che scompare)
Da Tiresia (2001)
oracoli, riflessi
“devi tenerti in vita, Tiresia,
è il tuo discàpito”
ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako
vedi. vento col volo, dentro, delle folaghe.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti.
che sognano di fare muta in ali
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.
prova a guardare, prova a coprirti gli occhi.
Nel luglio 2000, la più grande discarica di Manila frana, seppellendo Sitio Pangako (“Terra Promessa”), una delle baraccopoli che la circondano, e uccidendo centinaia dei suoi abitanti, che vi sopravvivevano scavando tra i rifiuti.
Da Nun (2010)
Nigredo
1
rotaia divelta, rugginosa,
un rachide ricurvo,
sotto la nuca, un rotolo di cenci, bisunto –
facendo permuta, di cocci, di stracci,
acrìbie nel tenere a mente,
tenere mente composta, ricomposta,
compresa traccia, ancora,
di volere –
[ perché non luce, non più luce,
perché ritorni, rapida luce ancora,
che ritorna –
[ non sarà sera,
o sorte di riavere,
luogo, tempo,
prendere tempo ancor a –
[ passa, parola,
passa tempo –
stato, non più che stato,
allora, qui –
tagliato via da nulla ]
Infine affido proprio alla voce di Mesa un'ultima testimonianza del suo intenso mondo poetico che è stata resa fruibile su Youtube, grazie ad uno dei compagni di strada nell'allestimento del Tiresia.
Per chi volesse approfondire la conoscenza dell'autore e trovare ulteriore materiale, segnalo l'Archivio Giuliano Mesa all'indirizzo: Archivio Giuliano Mesa
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