FRAGMENTA - Deborah Prestileo - Una Lectura Dantis al negativo: Paolo e Francesca in Inf., V

 

Deborah Prestileo

Tutto e di più è stato detto del quinto canto infernale, eppure buona parte della critica guarda all’episodio dantesco con uno sguardo ancora eccessivamente post-romantico. Ma come biasimare, del resto, una lettura così romanticizzata di questa pagina della Commedia?

Siamo in un luogo configurato come regno del male e come teatro della memoria umana, dove vengono punite più di mille ombre, identificate con le anime di peccatori carnali, di coloro che la ragione sommettono al talento, cioè al desiderio erotico. Nel bel mezzo della bufera infernale che li investe tutti, Dante rimane colpito da due corpi che paiono al vento sì esser leggieri, che hanno ali alzate e ferme e costituiscono un dolce nido. Subito chiede al suo maestro il lasciapassare per interrogarli, tanto è mosso da curiosità nei loro confronti. Prende la parola Francesca da Rimini, che – consapevole del suo mal perverso – descrive la vicenda, sua e di Paolo, facendo proprie le espressioni dell’amor cortese, con un protagonismo sintattico di Amore non indifferente: Amore è, Amore fa, Amore dice. Amore li muove, persino nella bufera che di qua, di là, di giù, di sù li mena / nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. Francesca riutilizza il sintagma – prima guinizzelliano e poi dantesco della Vita Nova – dell’amore che non può fare a meno di ‘agganciarsi’ al cuore gentile e nobile: la sede dell’amore non può che trovarsi, per la natura stessa del sentimento, nella nobiltà dell’essere.

Meno studiosi di quanti, forse, avrebbero dovuto, si sono occupati delle ragioni per cui Dante descrive un amore carnale, lussurioso e perverso con i sintagmi dell’amor cortese: come non chiedersi la ragione per cui l’amore lussurioso, un amore da rifuggire perché peccaminoso, viene presentato niente meno che con gli stilemi di un amore salvifico? Per rispondere, bisogna fare un passo indietro e porsi, nei confronti di questo canto della Commedia, come a uno di quei rari luoghi testuali in cui il Dante personaggio coincide con il Dante autore: il coinvolgimento emotivo è totale e il piano soggettivo interagisce con quello oggettivo, tanto che il Dante personaggio non riesce a resistere alla tensione emotiva e alla fine del canto sviene di pietà. Il Dante autore sa bene cosa sta rappresentando – la lussuria – , ma il Dante personaggio si ritrova di fronte a una situazione in cui fa molta fatica a dire dove finisce il bene e dove inizia il male, perché lui stesso, da giovane, ha provato ciò di cui adesso è colpevole Francesca, e se alla sua morte non sarà lì ad essere scaraventato dal vento tra le altre anime, lo deve soltanto all’intermediazione cristiana di Beatrice. Questa è la ragione per cui Francesca, nonostante colpevole di un peccato che viene condannato più che apertamente, mantiene la sua gentilezza: fra il Dante personaggio e Francesca nasce un’empatia a dir poco viscerale, poiché il Dante autore fa della donna una figura – per dirla con Auerbach – del sé giovanile, dell’errore che avrebbe commesso e da cui lo ha salvato la fede nelle vesti di Beatrice, ovvero l’amore spirituale. Di conseguenza, nessuno più di Dante può comprendere il dolore di Francesca; ecco perché proprio in lei presenta la propria opera giovanile – nei termini del lessico stilnovistico – come peccaminosa. 

Peraltro, la ragione di questo lessico troverebbe nuove conferme non nell’interpretazione del canto più immediata – come si è già detto, quella romanticistica –, ma in una (possibile e necessaria) lettura negativa dell’episodio. Che Paolo e Francesca siano presentati in modo affascinante e suggestivo è innegabile; ma analizziamo un attimo i dettagli che differiscono la loro storia da quella dei componenti della schiera ov’è Dido: nell’inferno come nella vita, nel mezzo di una bufera che scaraventa tutti da un lato all’altro del cerchio, Paolo e Francesca sono gli unici spiriti che rimangono insieme perché legati da un sentimento indivisibile: né quella lettura fatta per diletto, né la morte trovata per mano di Gianciotto, né l’oltretomba infernale li divide. Sono leggeri al vento – dunque la bufera li sbatte con più violenza delle altre anime – e non hanno alternativa al convivere eternamente con la persona in cui si riconosce la causa del proprio male – in un certo senso potrebbe anche significare non superarlo mai, questo male, se non addirittura arrivare a odiarsi visceralmente l’un l’altro per essersi trascinati in una situazione che ha avuto sì inizio, ma non può più avere fine. 

E allora ecco la mia domanda: l’amore che li lega è sollievo o condanna ulteriore?

La verità – così mi piace pensare – non sta nel mezzo delle due interpretazioni, ma in un opposto e nell’altro, nella tensione dinamica e dialettica da cui si origina la potenza straordinariamente attuale del poema dantesco.


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