POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia su "Da luoghi profani" di Elisabetta Destasio Vettori

 

Filippo Golia
(ritratto in foto di Marco Petrella)


Con foga, slancio e strazio. Forse è questa la temperatura della sua poesia.

Fu come se avessi incontrato uno dei lari della città.
Uno degli ultimi rimasti, dopo che, per un sacco o per la rovina che sempre incombe, infiltra e arrugginisce le mura, tutti gli altri ne erano fuggiti.
Ne scrivo solo ora perché è passato più di un anno, anche dalla pubblicazione del suo ultimo libro. E il tempo dà ai fatti quella patina irreale, che giustamente devono avere per essere creduti più che ricordati.

Mi sembrava infatti quasi avesse conosciuto di persona Mamma Roma o avesse dato da mangiare ai gatti di Elsa Morante.
E se Roma è ancora un tempio, sembra una delle poche voci a non averne smarrito le chiavi.

Lo testimoniano poeti e scrittori (sopravvissuti, aggiungerei), che si rivolgono a lei, nella capitale, per organizzare e moderare convegni, conferenze e reading poetici.

Ho incontrato Elisabetta Destasio Vettori perché dovevo realizzare uno speciale di 45 minuti su Pier Paolo Pasolini, che poi non è mai entrato nella fase di produzione.
Ci siamo visti proprio all’Idroscalo e abbiamo passeggiato tra i viali del memoriale.

Non solo aveva conosciuto Pasolini e il suo mondo. Era stata bambina sulle sue ginocchia, perché il padre faceva parte della cerchia degli amici.
Il padre che poi si è trasferito in Africa, quasi inseguendo le suggestioni del suo amico poeta, ed è tornato in Italia solo per morirci, confuso e straniato.

Il padre, l’Africa, il tema della memoria e l’ombra di una malattia, tornano e si mescolano nelle poesie di Elisabetta.

Quando l’ho conosciuta la leggevo molto in rete. Non molto tempo dopo è stato pubblicato: “Da luoghi profani”, Les Flâneurs Edizioni, con la prefazione di Roberto Deidier.


https://www.lesflaneursedizioni.it/product/da-luoghi-profani/


Poesia erotica, mi dicevo. Ma è solo la prima definizione, la più semplice e immediata.

C’è uno slancio di desiderio verso un amore mancante, mancato, presente nell’assenza, sognato nella presenza, slancio verso il piacere, inseguito, trovato, perso:

Avere il tuo corpo nudo
come un pasto da divorare
entrarti nel buio della carne
dagli occhi, come fossero caverne

fino a ritrovare lo scoglio di Cala Piccola
e giù ginestre e salicornia

fluttuarti sopra come un anemone
sul tuo sesso, lama tenera e severa

 

O ancora:

 

come quando
inginocchiato nel verde
del boschetto hai promesso
navigazioni lente

mentre ti dicevo
mandami giù,
inghiotti il mio humus,
trattienimi nella gola

e poi
traduciti in ritorno

Oppure, in modo più secco:

Poco fa
Davanti alla mia finestra
due allodole si sono accoppiate
sotto il battito incessante della pioggia

Ma quello che sorprende è la trasformazione di questo slancio erotico, nel corso delle poesie; il suo mutare in metafore e immagini che con il desiderio non hanno più molto a che vedere, e forse lo sorpassano, o sovrastano:

posso gemere finché il sole
si spegnerà sui fianchi
scendendo tra le gambe,
dritto dentro la notte

che ti farei giorno

- un’alluvione
                        lascia che piova
                        la mia lingua sulla ferita

Tra non molto il sole oltrepasserà
le costellazioni del Cane maggiore e
del Cane minore

Una pioggia di Perseidi

Tra quello che non ci siamo mai
detti e uno sterminato campo

Di parole

 

Mancanza e desiderio possono rendere strazianti i versi dedicati al padre:

 

Così ho battuto la faccia contro la tua morte,
dopo sette mesi, con le tue ceneri nell’urna chiusa

- al cimitero monumentale
col caldo che opprime le meningi
e riporta alla tua casa in Africa.
mentre chiedono le mie credenziali di orfana
sul modulo per la successione

 

O, traboccanti di compassione, quelli per la madre colpita da demenza senile:

 

Perciò ti faccio il nido,
madre,
mi ci accovaccio dentro
e ti invento figlia
ti faccio spazio nel verbo accudire

(dove si apprezza il leggero scarto semantico tra l’oggetto e la sua espressione linguistica; scarto che è un trasalimento tra i molti, generati dal passaggio, continuo in queste poesie, dal desiderio alla sua immagine riflessa, dalla trasformazione dell’immagine in metafora, per poi tornare, tramite la parola, al desiderio)

E ancora, sempre, onnipresente, metafora regina tra tutte, ubiqua, Roma: città mondo, città-desiderio:

La schiena di Roma
nell’incurvarsi dei platani
sul lungotevere

In autunno rifiorisce
il gelsomino

Ci arrendiamo
agli dei degli stracci
e alle cose abbandonate

A volte eros, strazio e assenza si legano in una fitta, una riflessione metafisica:

Sveglia
nella fitta di dolore
che s’incunea

qui

dove la circonferenza
del vuoto ci fa latrati
di cani

- e mutilati

Alla fine, se si cercasse di comprimere tutto in un solo aggettivo, in questa tensione che sembra erotica ed è panica, c’è qualcosa di estesamente “materno”.
Fino a farsi madre dei propri genitori, o del loro ricordo o della loro improvvisa incapacità di ricordare; in una periferia sospesa tra Roma e l’Africa, che, sebbene i ricordi si sgretolino e i desideri si rovescino allo specchio, resta un panorama immutabile.
E allora sì. È proprio come se Elisabetta Destasio Vettori avesse conosciuto di persona Mamma Roma e i gatti della Morante. Come se quel qualcosa di strascicato, dolce, amorevole e respingente, che da sempre impregna la città eterna, la sua brutalità e la dolcezza dei suoi colori, le appartenessero per ragioni genetiche o per diritto di nascita.

E se credevi che tutto fosse andato, andato per sempre, invece no.
A Roma, il miracolo si ripete. Torna.


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Elisabetta Destasio Vettori, nata a Roma, è editor e consulente editoriale.
Dal 1995 lavora nell’ambito delle produzioni teatrali e musicali e collabora con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Dal 2019 è direttrice artistica della rassegna “Poeti in itinere”.
È autrice delle sillogi: “Sogno d’acciaio”, “Corpo in animae” (Annales edizioni) e “Da luoghi profani” (Les Flâneurs edizioni”).
Alcuni suoi inediti sono stati tradotti in lingua araba e inglese per la rivista Alaraby Aljadeed, diretta dal poeta Najwan Darwish.


 


Commenti

  1. Filippo complimenti bravissimo. Vittorio Fiorito

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    1. Caro Vittorio, caro direttore, sono molto felice che tu mi legga! Davvero. Un abbraccio

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  2. Silvia Dionisi23/09/24, 14:32

    Complimenti per la vivacità e la profondità di entrambi

    RispondiElimina

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