IL MARCATEMPO – Matteo Rusconi – Di libertà e di parole

 

Matteo Rusconi



Tempo fa sono andato a fare un giretto al Villaggio Crespi, in provincia di Bergamo. Per chi non lo sapesse, questo villaggio è una sorta di città operaia nata sul finire dell’Ottocento attorno al cotonificio della famiglia Crespi.

In breve, fu costruito per volere di due industriali, Cristoforo Benigno Crespi e il figlio Silvio Benigno, i quali vollero realizzare sulle rive dell’Adda quella che può essere definita una città operaia modello: c’erano case in cui abitavano gli operai e i loro familiari, una scuola dove mandare i figli, uno studio del medico, un cimitero e vari luoghi di aggregazione. Tutto voluto dal padrone. Tutto avente come centro la fabbrica.

Dapprima sono stato affascinato da ciò che resta di questo microcosmo (ora è metà abbandonato e la fabbrica è in disuso) e costruire una città del tipo mi è sembrata una cosa davvero geniale: case per i lavoratori, scuola e libri per i figli, una vita sociale conformata a unire le persone dentro e fuori il mondo del lavoro. 

Geniale sì, ma diabolico!

Pian piano il fascino ha lasciato posto a una specie di angoscia, di strano risentimento; il villaggio è cominciato ad apparirmi come una grande gabbia, fuori dalla quale il padrone osservava e dominava tutto. 

Immagino solo la vita di un lavoratore: in reparto vedevi le stesse facce ogni giorno, te le ritrovavi per strada, a fianco in fila dal medico; persino appena ti affacciavi fuori dall’uscio di casa. Essere operaio in quel posto ti schiavizzava, ti legava con un cappio al cancello della fabbrica; se per un qualunque motivo fossi stato licenziato, avresti perso in un solo colpo lavoro, tetto sotto cui stare, scuola per i figli e qualsiasi bene di sostentamento. Da questo, potete capire bene il legame che si andava a creare tra datore di lavoro e lavoratore.

Ripensando a tutto ciò che ho avuto modo di vedere e percepire in quella giornata, mi sono reso conto di una cosa: se la poesia è un’esaltazione di libertà, Villa Crespi ne rappresenta in pieno il contrario. E quindi mi sono chiesto: in un contesto del genere, di totale annichilimento, quale valore può assumere la parola

La poesia, si sa, offre spazi al di fuori del nostro qui in cui precipitarsi; non conosce limiti, recinti, mondi che possano crollare e caderti addosso. Attraverso di essa la parola si fa potente, tuonante, diventa una condizione vitale, uno stimolo per diventare più consapevoli di sé, quindi forti. E chi la impugna, chi la sente entrare endovena, ha poi il tormento di gridarla così, senza alcuna censura; inoltre, la poesia questa libertà la reclama, la brama sotto i propri denti, ne vuole il senso più intimo e il poeta, per naturale coerenza, non può e non deve indietreggiare davanti a questa bramosia. 

Però la questione è sempre lì: poeti o no, abbiamo realmente quel quid che ci permette di rendere manifesto com’è realmente tutto ciò che ci circonda, in maniera diretta, senza timore né condizionamenti? Abbiamo la forza di vivere appieno questa libertà andando contro chi, in un modo più o meno palese, ce la limita?  Di fatto è difficile, può sembrarci una battaglia senza fine e ad un certo punto rischiamo pure di sederci, sopportare e restare comodi, ma in quanti hanno vissuto almeno una volta il proprio piccolo Villaggio Crespi, in quanti hanno sentito tutto il peso dell’incomunicabilità e hanno dovuto mettere quelle parole in tasca, tenerle chiuse da una zip oppure da un bottone e gettarle poi su un foglio con tutto il loro carico di crudezza. E questo atto, questa presa di coscienza tascabile, diciamolo pure, è stata la loro e la nostra liberazione. 




Commenti

  1. Matteo, sai sempre trovare gli interrogativi giusti. Il tuo messaggio è prorompente. Credo che ognuno di noi viva in un villaggio Crespi ed è difficile in quel contesto sentirsi davvero liberi. Parlo del mio vivere quotidiano: vivo in un villaggio Crespi, ne respiro l'odore e ne sento il sapore. A volte vorrei fuggire. Poi a fine giornata, tra le mie preghiere pagane, ringrazio anche per quello che ho vissuto. E lì, nel silenzio apparente leggo e scrivo e scrivo e leggo. Solo così assaporo la libertà del mio pensiero. Solo così so di tornare libera. Grazie infinitamente per questo bellissimo contributo!

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    1. Grazie per la lettura :) Credo che questi spazi così angusti servano, in modo spiacevole, ad apprezzare la potenza libertaria della parola (e della poesia); è un po' come dire che attraverso il buio si apprezza poi la luce. Più o meno.

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  2. Un tema importante questo da te proposto. Quanto siamo liberi? Quanta coerenza nelle nostre vite? Nell'introduzione a "Flamenco e cioccolato" ho scritto: siamo finalmente liberi quando aderiamo perfettamente alla nostra esistenza e la scegliamo ogni giorno come la migliore possibile per noi. Il problema è come la realtà esterna opera più o meno pesantemente nelle nostre vite...

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