I GRANDI IRREGOLARI – Mauro Barbetti su Emilio Villa
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Mauro Barbetti |
Dopo aver
tracciato un breve quadro su scritture e sperimentazioni linguistiche che
tendono a superare l'esperienza mainstream della tradizionale poesia lirica,
comincio con questo articolo una rubrica di approfondimento su alcuni
personaggi che hanno incarnato il ruolo di artisti multiformi ed eclettici e
che hanno lasciato un'impronta nel nostro panorama culturale.
***
Certamente una delle figure più ricche di suggestioni nella
scena artistico-letteraria del Novecento italiano è stata quella di Emilio Villa
(1914-2003).
Animo poliedrico e curioso, oltre che poeta, fu anche
critico d'arte, esperto biblista, aperto alla ricerca e alla contaminazione,
collaborò spesso in progetti con artisti della sua epoca come Burri, Schifano,
Cagli e con Carmelo Bene, ebbe profondi contatti con Duchamp, Rothko, Matta,
così come nella sua esperienza sudamericana degli anni cinquanta ebbe modo di
frequentare l'ambiente dei poeti visivi e concreti.
Villa comincia come poeta lineare (prima raccolta
pubblicata nel 1934) ma nel giro di qualche decennio deborda in un'esperienza
di scrittura che ingloba in sé oltre alla lingua italiana, da lui poco amata,
anche lingue antiche (dal latino e greco fino ad arrivare al sanscrito e alle
lingue mesopotamiche, grazie ai suoi studi di linguistica e filologia), lingue
straniere moderne e persino il dialetto lombardo e utilizza anche elementi
visivi e sonori, miscela che ne fa uno dei padri fondatori delle avanguardie degli
anni sessanta-settanta.
Ebbe una vita da irregolare, per sua
scelta mai troppo stabile, fu un personaggio scomodo in quanto profondamente
avverso all'industria culturale e anche per questo marginalizzato per decenni,
si curò poco della promozione e conservazione delle proprie opere spesso
pubblicate da piccole case editrici, in numero limitato di copie o addirittura
in modo artigianale, magari autoprodotte in copia unica o disperse (celebre
l'episodio della serie di ciottoli scritti e poi gettati nel Tevere), quando
non addirittura in forma frammentaria e di appunto. Ciò che resta di lui si
deve per gran parte al lavoro di raccolta e divulgazione di Aldo Tagliaferri e alla
costituzione di un fondo di sue opere presso il museo della Carale Accattino di
Ivrea.
Dopo un periodo di oblio successivo alla sua morte, in
questi ultimi anni si sta assistendo a una riscoperta e ripresa di interesse
per il percorso di Villa grazie a studiosi e case editrici che ne hanno curato
le non ancora totalmente investigate carte. Ricordiamo tra gli altri: L'opera
poetica di Emilio Villa (a cura di Cecilia Bello Minciacchi), il progetto “Parab(olich)e dell'ultimo giorno. Per Emilio Villa” (a cura di Enzo Campi), “Emilio Villa, la scrittura
della Sibilla” ed. Diaforia, tutti usciti attorno al 2014 per il decennale
della morte e, più recentemente, i due libri
di Gabriella Cinti “Emilio Villa e l'arte
dell'uomo primordiale” (Quaderni del bardo) 2019 e “All'origine del
divenire: il labirinto dei labirinti di Emilio Villa” (Mimesis ed.) 2021, i tre volumi editi da
Argolibri “Rovesciare lo sguardo. I tarocchi di Emilio
Villa”, a cura di Bianca Battilocchi, prefazione di
Aldo Tagliaferri (2020) “Crepita la carta. Libri e vertigini di Emilio
Villa”, a
cura di Giorgiomaria Cornelio e Andrea Balietti (2021), “Presentimenti del
mondo senza tempo. Scritti su Emilio Villa”, a cura di Gian Paolo Renello
(2022),
Quella villiana si presenta come una scrittura polimorfa,
plurilinguistica (ma a ben guardare le lingue utlizzate sono
ricreate e manipolate attraverso assonanze, risonanze semantiche, invenzioni) e
labirintica (il
labirinto è una delle figure archetipiche di riferimento nella sua ricerca)
dove è facilissimo perdersi, ma dove è anche possibile trovare illuminazioni,
epifanie, verità nascoste (o dissimulate) e la cosa migliore, più che
affrontare un complesso discorso critico che potrebbe occupare diverse pagine,
mi pare quella di offrire alcuni dei suoi testi in lettura, dalle prime prove
agli ultimi esiti, quelli degli anni ottanta, prima che un grave ictus lo
portasse a quel progressivo occultamento dal mondo che aveva sempre perseguito.
Ormai
da Ormai (1947)
Un
giorno la giovinezza, con circospezione
abbandona
arbitrariamente i capolinea. Ecco.
E io ricordo le
finestre che s’accendono al pianterreno
sul vialone, e
somigliano così profondamente ai radi
ragionamenti
che faremo sul punto di morire,
in articulo,
con l’ombra degli amici, a fior di mente.
Invero
non so più se
viva tra le secche
ancora il suo
tepido serpire, adesso,
in province
gelate, come una romanza
fine e perenne
sul filo della schiena, ma davvero
so che nelle
lacrime lombarde, ove credemmo
di mieterci a
vicenda, vagabondi baleni
dissipavano i
veli nuziali alle riviere.
Ed era
un nome d’alta Italia, a ripensare bene,
era un nome
questa raffica, che non osi
più inseguire?
E la felicità dell’occidente
si salva in
occidente?
Disabitate
ormai le alzaie, e disperando
ormai del
nostro sentimento (e la nebbia
ormai mietuta
che ci stringe a mezza vita),
disabitate le
alzaie e disperando ormai,
se la patria
fosse una cittadinanza unica, reale,
andrebbe
ricordata in un risucchio, a capofitto
per le celesti
aiuole, la parte più dimessa
del nostro
pensare lontanamente: andrebbe
ricordato uno
spesso passaggio di brumisti
e di taxi, quel
che tossisce sul margine caduco
del Naviglio, o
libero tra le pioppe luccicanti
che i diti dl
vento tamburellano lassù, il brivido
dell’ultimo
brum, in una corsa matta, che ci porta
via tutti i
fanali e il nostro cuore salutando.
Linguistica
da
“E ma dopo” (1950)
Non
c’è più origini. Né. Né si può
sapere se.
Se
furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c’è ragione che nascano
le origini Né più
la fede, idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco
nell’accento
nel sogno mortale del
necessario?
No,
non c’è più origini. No.
Ma
il
transito provocato dalle idee antiche–e degli impulsi.
E
qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
dalle relazioni
dalle traiettorie
dalle radiazioni
dalle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per
riconoscere l’incommensurabile semenza delle vertigini
adombrate
le
giunture schioccate nei legami
la
trasparenza delle cartilagini
il
cieco sgomento dei fogliami
agricoli
nelle forze
esteriori,
e l’analisi fonda
incisa
nel corpo dall’accento.
No.
Non
c’è più. Né origine nei rami.
né non origini.
Chi
arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava
lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come
un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire
più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione,
senza
essenza, così che speculare sul comune tedio
un
gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora
oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe
dell’ombra dei tramiti dell’essenza.
E
codesta sarebbe. Questa la fine
concepibile:
se
attraverso l’idea massima del pericolo e dell’indistinto
si
curva l’anima estrema nell’attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi
sommano giorni ai giorni quotidiani nell’araldica
prosodia delle tangenze,
soffocando
ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi
le braccia levava saziate di viole nel palpito
assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune
che popola e corruga a segmenti il nembo
delle
testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso
delle parrocchie e nelle larghe zone
di
caccia e pesca e d’altre energiche mansioni culturali.
E
non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e
celebro l’etimo corroso dalle iridi fonetiche,
l’etimo immaturo,
l’etimo colto,
l’etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l’etimo della solitudine posseduta,
l’etimo nella sete
e
nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle forforescenze idumee, idolo di
Amorgos
Le
l’oiseau-pèr(dr)e
da
“Heurarium” (1961)
Le
l’oiseau--pèr(dr)e dans une femme fine
le lois-au-pair
l’oiseau-pourdre
l’oie sceau des
rivages
l’oiseau barr(nn)ière
oiseau-mèr(ttr)e
/ dans une flamme bîme
l’oiseau-meur(tr)e
l’oiseau-derr(n)ière
/ l’oiseau par(r)tèr(r)e–
l’oiseau-barre des incidents
voix-isobare des
actes noirs
c.à.d. l’OISEAU-TOUT
hérissa ses plumes dans la vortige
irradiée
et
pénétra interieur
tra
il
aiguisa trois / fois son bec
et secoua sous le
culciel
l’échec des
embruns
les coulecouleurs
dla durée
des
éclats horizontales
moral:
il faut secouer un nautre amou
Copertina del libro Brunt H pubblicato in 220 copie (ognuna diversa
dall'altra) - 1968
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Pagina interna del libro Brunt H pubblicato in 220 copie (ognuna diversa dall'altra) - 1968
Euonirico
transfer
da
“Zodiaco” (2008) uscito postumo con lavori degli anni settanta/ottanta
ey
ios dionysios
grande
grande e mite pietra del controvento
come
l’odio nel creare, che di rado
càpita
e si uguaglia
allo
stormire di struscio
delle
brezze addossate alle colonne,
colonne
partorite vecchie, sensazionali, fatte
avanti
in procedimenti bislacchi
senza
ragionevoli probabilità
di
colori annodati ampex annudati
climatici,
in disarmo
facce
di tolla e labbra sepolcrali
quando
ti guardavano dal falansterio
infante,
puerile, cantando
sfrontato,
sfrondato, sfranto di sfera in sfera,
con
frecce in cuore e galantina
di
giorni tesi e sparpagliati nel perentorio
intimo
screpolo, a predare
nel
folto forforeo dei capelli il meduseo
inestinguibile
scandalo
di
Botri e Sorci, e scorci controsesso
strangola
lo strapazzato d’occhi,
imperioso
il pastore di poemi surgelati
cuori
coloniali di fosforo femmina
e
di tumulti irrelati, tumuli
audaci
sulle dune della cornacchia
cuore
di bacio che dovresti
ribattezzare
in sale e in ghigno
di
memorie carogne,
di
antiche, antichissime volpi
a
sincero tempo del guatare in giù
in
fondo all’occhio vulvatica
di
piramidica Medea
scansati,
patriottica melma di immemorato
immortale
puerperio
dall’alto
di ginocchi pressati e strabiccolanti
come
gli occhi del dio morto
(perché
vivo non ce n’è ancora stato)
dove
imperiosa vigila e scorrazza
la
schermaglia, l’inafferrabile
inconsistenza
dell’anima del corpo
da Verboracula (pubblicato sulla rivista Tau/ma nel 1981)
sta men stlo cus
is
sis
te
ne sit stat
in si q[uae]
ul us sti[r]ps
ne vi sen tlo ci
sus ni lo
cis
mis oc ul
i
nec sit nex
it is
ac sat ti
sti mu lus us
A riassumere la vicenda umana e poetica
di Villa altre sue oracolari parole:
«Guarda che siamo di Eleusi. Torniamo a
Eleusi; sotto, sotto, sotto. Qui il più severo e il più vero inventore sono io,
che ho inventato la poesia distrutta, data in pasto sacrificale alla
Dispersione, all’Annichilimento: sono il solo che ha buttato via il meglio che
ha fatto: quello che s’è consumato nella tasca di dietro dei calzoni, scappando
di qua e di là, quello scritto sui sassi buttati a Tevere, quello stampato da
un tipografo che non c’è più, quello lasciato in una camera di via della croce.
Solo così si poteva andare oltre la pagina bianca: con la pagina annientata».
Grazie per questo dono. In fondo i più Grandi Irregolari non sono di per sé gli esseri più preziosi al mondo?
RispondiEliminaHai del tutto ragione, cara Annalisa...
Eliminafantastico un grande veramente
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