FILI D’ERBA – Viola Bruno - Dalla crepa

 

Viola Bruno


C’era che bisognava distruggere e distruggere e distruggere,

c’era che solo a questo prezzo si dà salvezza.

Rovinare il volto nudo che cresce nel marmo,

martellare ogni forma, ogni bellezza.

Amare la perfezione perché essa è la soglia,

ma appena conosciuta negarla, morta dimenticarla.

L’imperfezione è la cima. (1)

Yves Bonnefoy

L’imperfezione è la cima. È la rampa da cui spiccare il volo anelante la perfezione, che mai deve poter essere raggiunta, pena la morte di quella tensione vitale. La soglia da cui sfiorarla, senza mai abitarla.

Perfezione equivale a forma piena, conclusa, priva di spazi da poter colmare. Morta nella sua finitezza. Stasi.                                                                             

Imperfezione è movimento, infinito tentare, pizzicore zompettante di vita, caduta, frattura e resurrezione. 

L’elogio della crepa ce lo propone Leonard Cohen, nella sua Anthem

Leonard Cohen - Anthem (Live in London)

“Continua a suonare le campane che ancora possono suonare

Dimentica la tua offerta perfetta

C’è una crepa, una crepa in ogni cosa. 

È da lì che entra la luce.”

*

“Ring the bells that still can ring

Forget your perfect offering

There is a crack, a crack in everything

That's how the light gets in.”

Cohen ci invita a suonare ogni campana ancora in grado di suonare, dimenticando la nostra “offerta perfetta(“Your perfect offering”): “puoi sommare le parti ma non avrai il risultato finale” (“You can add up the parts but you won't have the sum”). Ed è questa una benedizione: significa essere vivi, poter andare avanti perché si è vivi, cadere e risorgere. 

Non esiste rinascita senza una rottura. Non conta la caduta, conta potersi rialzare. 

Non esiste luce che squarci il buio, se non c’è una fessura, una crepa, da cui poter filtrare. 

Stesso il movente del Kintsugi, l’antica arte giapponese di riparare gli oggetti preziosi, riempiendo le crepe con l’oro.

È l’arte di abbracciare il danno, di valorizzare, enfatizzare e non camuffare la cicatrice, l’imperfezione, rendendo nuovo l’intero, una versione di sé trasformata in preziosa bellezza.

Così nelle parole di Anna Polin, dal suo Canto Primitivo, sezione IV, Kintsugi:

Ci vogliono mani

falangi di confine

tenerezze di contenimento

oro sulle cicatrici.

Altrettanto mirabile il ribaltamento proposto da Sergio Daniele Donati in questo inedito, quando all'estremo tende questo elogio: l'imperfezione non ha bisogno d'essere abbellita, ulteriormente impreziosita, ché ancora sarebbe camuffarla. 

L'imperfezione è perfetta così com'è…

Quanto a lungo ancora

durerà questa finzione

che screzia d'indaco e porpora

la banalità di una ferita?

Il Kintsugi è buona cosa

- per porcellane inanimate -

ma l'uomo si rigenera

perdendo pellicine dalle dita

e sa che il fango ha valore

quando non si finge oro.

E ancora Rita Levi Montalcini, che proprio la sua autobiografia ha intitolato “Elogio dell’imperfezione”: “Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione.”

L’imperfezione come virtù e condizione necessaria per evolvere, per migliorare: “L'imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell'uomo.” (2)

Oppure, passando attraverso l’arte, mi piace rammentare Sakuntala (L’abbandono, 1888), di Camille Claudel: la bozza preparatoria sempre mi è parsa più potente, evocativa, struggente, dell’opera compiuta, di cui la straordinaria scultrice (musa e allieva di Rodin, di pari grandezza), propose differenti versioni.

In quell’impossibile abbraccio della bozza, vedo la forza di una tensione emotiva estrema, che svanisce nell’opera conclusa, nella perfezione del marmo levigato, nella distensione dei corpi, dei volti, delle anime che si immagina li abitino, finalmente congiunte, compiute, perfette. Finite.

Camille Claudel, Sakuntala (L’abbandono), 1888


 

C’è poi una storia da raccontare. 

Quella di un prodigio della musica che percorse settecento chilometri su di una Renault 4, con un tremendo mal di schiena che gli impediva da giorni di dormire. 

Partì da Losanna ed arrivò a Colonia, presso la leggendaria Opera Haus, dove era prevista una rassegna intitolata “New Jazz in Köln”. Il concerto prevedeva un recital per piano solo: quello di Keith Jarrett.

Jarrett, leggenda del piano, aveva solo trent’anni, ma una carriera di tutto rispetto alle spalle: aveva suonato con Art Blakey, con Charles Lloyd e col grandissimo trombettista Miles Davis. 

L’organizzatrice della rassegna era una ragazza di soli diciannove anni di nome Vera Brandes.

Tutto sembrava tramare perché questo concerto non si potesse tenere.

Nel contratto era previsto che lo strumento per Jarrett fosse un Bösendorfer Imperial, adatto alla grande sala dell’Opera Haus.

Ma il pianoforte non c’era perché la direzione lo aveva dato in affitto ad un altro teatro.

Nella sala dove provava il coro trovarono un altro Bösendorfer, molto più piccolo, e lo portarono sul palco. Ma il pianoforte era completamente scordato, i pedali non funzionanti, praticamente inutilizzabile.

Vera Brandes supplicò Keith Jarrett, mentre stava già andando via dal teatro, perché suonasse ugualmente, vista anche l’impossibilità di rimborsare i 1400 biglietti venduti. L’accordatore tentò l’impossibile, Jarrett si fece convincere.

Era un venerdì sera, e pioveva, a Colonia: quella notte “un uomo si mise seduto a lavorare dopo una lunghissima insonnia e finì per creare un altro mondo".

Ne uscì qualcosa che era "la somma di tutte le note cercate a lungo, delle frasi musicali, delle percussioni ritmiche, delle soluzioni armoniche che per molto tempo Jarrett aveva cercato tra i tasti di un piano”. (3)

Il suono di una campanella annuncia l'inizio del concerto. Keith, visibilmente provato ed affaticato (imbottito di antidolorifici e con un tutore come sostegno spinale), si aggrappa a quel suono per prendere fiato e buttarsi ad occhi chiusi.

Appena suona le prime note tutti si rendono conto di una magia improvvisata: l’incipit suonato da Jarrett, riprende infatti il motivo della campanella, le note sono esattamente quelle.

Inizia a suonare, in sordina, per accordarsi con lo strumento: due corpi rotti, due bestie ferite che si annusano.

Brusio, qualche risata tra il pubblico.

Un passo, un altro, iniziano a sfiorarsi. Diventano pian piano carezze, parole, scambi, conversazione. Testano l’intensità del tocco. 

Al minuto 3:40 inizia una danza, un’ascesa pressante, verso l’estasi.

Al minuto 5:05 la diga, trattenuta, crolla: esplode l’abbraccio, che inonda, corpi ormai fusi in un unico sospiro, un unico canto, un’unica voce.

Potrei ascoltare quel salto nel minuto 5 infinite volte, ed ogni volta sarebbe un sussulto, una stretta alla gola, pelle d'oca ed estasi. 

Sarà un amplesso lungo più di un’ora. Ai fortunati presenti mancò il respiro. 

Fu un prodigio, un volo spiccato senz’ali dalla cima dell’imperfezione: il più perfetto di sempre.

E adesso non avete più scuse per non brillare nella vostra unicità, alzate il volume: ognuna di queste note vi rimarrà conficcata tra le scapole e la pancia. 

Keith Jarrett, The Köln Concert (Part I/IV)Keith Jarrett - The Köln Concert - Part I

Keith Jerrett


La Rubrica FILI D’ERBA è un tributo a Christian Bobin, al suo Abitare poeticamente il mondo, nel tentativo di portare, come lui, “la testimonianza di un filo d’erba”, delle piccole grandi cose.

1. Yves Bonnefoy, Hier régnant Désert, 1958, Traduzione di Antonio Prete

2.  Rita Levi Montalcini, Elogio dell’Imperfezione, 1987

3. Federico Pace, da l'isola del tesoro, in Controvento



Commenti

Posta un commento

Post più popolari