ACCESA RUPE - Fabio Barissano - Sandro Penna o della grazia.

 

Fabio Barissano

Sandro Penna aveva la grazia. Quella antica, che scese nel cuore degli apostoli. Questi, parlando le lingue ispirate dallo Spirito, ricomposero il primigenio caos della lingua. Il Novecento ebbe la sua Babele: guerre e dittature, progresso scientifico e rivoluzioni culturali scombinarono le forme composte degli antichi patres con D’Annunzio ultimo vate. L’avanguardia futurista fu la grande bomba lanciata sulle ordinate architetture del testo secolare. C’erano macerie reali dovute alla guerra militare e macerie simboliche dovute alla guerra culturale. Sandro Penna nacque nel pieno del vortice ricombinatore, ma avrebbe camminato in un altrove ideale, negli abissi di una privata oceanografia sentimentale.

Sandro Penna è un poeta “semplice”. Al contrario di Oscar Wilde, non vuole essere frainteso. Non tende trabocchetti logici, non è un poeta dialettico. La poesia offre paesaggi idilliaci costellati da corpi virili intatti in un eterno fulgore giornaliero (“Sole senz’ombra su virili corpi / abbandonati”). La linea panica che parte dal D’Annunzio dell’Alcyone, passando per la “Gloria del disteso mezzogiorno” di Montale, arriva a Penna, senza gli incauti eroismi del primo o le cupe ambasce del secondo: tutto è vivificato da una sana luce paesana e variopinto dal suo eros omosessuale.

“Sole” è parola assai diffusa nel lessico di Sandro Penna, il polo positivo della vita che accende la storia dei suoi oggetti erotici: uomini, ragazzi, operai… La stessa umanità di Pasolini ma, diversamente da questi, vissuta senza l’angoscia per il tramonto della civiltà rurale, senza il ragionamento sulla mutazione antropologica né l’impegno politico che porterà Pier Paolo alla morte. Diversamente dall’autore di Passione e ideologia, Penna visse il suo mondo e la sua umanità con moltissima e ingenua passione ma poca, pochissima ideologia. Il sole, dicevamo, ma non mancano le ombre: queste tutte all’interno, nel mondo privato e “uterino” della riflessione dell’io poetico.

Ecco un testo significativo:

 

Giunto fra un incrociar di lenti carri

stetti fra un indugiar di lenti affetti.

Sotto il cielo mirando i caldi tetti

esitavo nel sole tra i ramarri.

Già mi parla l’autunno. Al davanzale

buio, tacendo, ascolto i miei pensieri

piegarsi sotto il vento occidentale

che scroscia sulle foglie dei miei neri

alberi solo vivi nella notte.

Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta

il canto di un ragazzo che la notte,

immite, alleva: la vita non muta.

 

Esterno. Giorno: il sole e la vita di paese.

Interno. Notte: il poeta è a letto.

Di giorno si vedono le cose.

Di notte si ricordano le stesse.

 

Ma non è il Leopardi degli Idilli, che prima vede il suo paese o la sua amata e successivamente riflette con gli strumenti del filosofo. In Penna, come detto, non c’è dialettica. Allora vivere è un pretesto per fare poesia? Con le parole di García Márquez: “Vivere per raccontarla”? Forse sì. Del resto, questo fanno i poeti: la vita va vissuta e “nulla dies sine linea”. E guardando la fluviale produzione del poeta perugino, nonché l’intensa sensualità e semplicità che circola nel suo vasto corpus, è lecito credere abbia incarnato il senso più profondo e professionale del poièin: l’urgenza di esprimere il proprio universo luminoso e numinoso.

 


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