RONDINI - Melania Valenti - Intervista a Saverio Bafaro

 

      Melania Valenti 



Poesia di Saverio Bafaro 


Saverio Bafaro è personalità eclettica che spazia dalla poesia, alle arti figurative, agli studi e alla professione di psicoterapeuta, oltre che alla importante attività di divulgazione in ambito poetico e artistico. Ho cercato, in queste poche domande, di presentarlo così com'è: sincero, senza fronzoli, variopinto. Magicamente Persona tra le persone. Entrando in modo discreto nei suoi ricordi di bambino come nella sua poetica.
A me il piacere di averlo conosciuto meglio, piacere che spero avere saputo trasmettere nelle parole che seguono.


Saverio Bafaro, performance "La Notte del Drago", 14 giugno 2024, Terni


Saverio, si legge ovunque dei tuoi libri e della magnifica rivista «Metaphorica – Semestrale di Poesia», giunta al suo 5° numero, e tra un po’ ne parleremo; vorresti prima, però, parlarci del Saverio bambino? Come giocava, con chi aveva più affinità, andava bene a scuola?

Da bambino venivo visto erroneamente da mio padre (il quale non ha mai capito alcunché di me) come “timido” e questo mi mandata su tutte le furie, perché sapevo che non mi rappresentava affatto. Avevo un potenziale creativo, ma anche sportivo, purtroppo non coltivato per problemi economici e di spostamenti; mi sarebbe piaciuto, ad esempio, praticare karate, credo anche inconsciamente per esprimere la rabbia che intanto cresceva in me, o divertirmi con il ballo… I miei giochi erano: i “trasferelli” (delle figurine che si appiccicavano sull’albo dopo averle calcate con una penna, mi aiutava in questo il mio amato nonno omonimo, al quale ho da poco dedicato un componimento poetico); le costruzioni; i pupazzetti wrestler; i robot; la bicicletta; i giochi da tavolo e taluni giochi che la mia tata Anna Rita tirava fuori da tempi passati, come dei cubi di legno dipinti su ogni faccia, con in quali si potevano comporre così delle immagini. Ero, inoltre, un appassionato lettore del «Corriere dei Piccoli». A scuola andavo abbastanza bene alle scuole elementari. Tra i primi talenti specifici che sono emersi nella mia indole c’è stato il disegno; poi alle scuole medie eccellevo in inglese. Ho sempre avuto una passione per la pronuncia di parole straniere (complice il mio interesse verso la musica anglofona: da bambino il primo brano messo al jukebox è stato Joyride dei Roxette). Mi interrogavo sulle singole parole delle canzoni e leggevo i testi sui magazine di musica. Al liceo scientifico, durante il quale, però, ero un pessimo studente di latino e matematica – forse a posteriori, direi, perché il metodo di insegnamento non mi entusiasmava – ho studiato, infatti, anche francese, opportunità che mi ha permesso di innamorarmi dei poeti Simbolisti, tra gli altri. Chi legge si chiederà, forse, di come andava l’italiano: venivo troppo spesso “costretto” a leggere i miei temi all’intera classe, cosa che mi imbarazzava non poco, e inoltre detestavo la stessa forma del tema; per fortuna gli ultimissimi anni hanno previsto l’introduzione di altre forme più creative di scrittura, come l’articolo o il saggio breve, forma quest’ultima che scelsi per la prima prova scritta degli esami di maturità. L’argomento era la ‘piazza’ ed io citai, tra gli altri, Walter Gropius e Piazza Grande di Lucio Dalla. Alla prova orale la docente e membro esterno di valutazione mi fece leggere e commentare Dino Campana con mio entusiasmo, per meglio argomentare del filo rosso che proponevo ai docenti: “la follia e il viaggio”.

Come è iniziato il tuo amore per la scrittura poetica? Qualcuno ti è stato di esempio o è stata una passione autoindotta?

Ho iniziato a scrivere intorno agli 11 anni, come ho già dichiarato altre volte, su totale fascinazione verso la poetica di Giacomo Leopardi, più per la sua mente brillante, per il suo pensiero e per il suo mondo fisico e filosofico che per la sua versificazione (scientifica e straordinaria); questa figura di poeta e pensatore è assolutamente unica, più grande di Arthur Rimbaud, altro inimitabile “giovane terribile” che porterò sempre impresso in me per il fuoco straordinario con cui ha bruciato. Leggete e rileggete a ogni età il ragazzo di Recanati, è un intero percorso terapeutico di realismo e compensazione di opposti, molto analogamente alla Commedia di Dante Alighieri, altra esperienza imperdibile per ogni essere umano.

Sei nato a Cosenza, uomo del Sud, quindi. Da donna del Sud, e che al Sud è voluta restare, ti chiedo: come si concilia il concetto di poesia con lo scempio che si vede in giro per le strade del nostro Sud? Sei stato condizionato dal degrado di certe nostre zone e, se sì, come?

Sono vissuto dapprima in due paesini della Presila (la zona geografica a metà esatta tra Cosenza e la Sila) molto ordinati entrambi; poi mia madre si è stabilita nella stessa Cosenza, la città più “nordica” della Calabria, molto decorosa e piena di gusto verso la moda e il bel vestire (che ho sposato appieno) e un certo sfoggio borghese di auto lussuose (che non ho sposato affatto, essendo “fobico” della meccanica e della tecnologia), quindi di “degrado” in senso stretto non ne ho visto personalmente molto… Se c’è, però, un atteggiamento (di degrado “morale”, potremmo definire) che non sopporto è quello fatalista, indolente, incurante, arreso e lamentoso-piagnucolone di alcune anime del Sud. Ricordo di aver scritto, ora che ci penso, una poesia (che spero di ritrovare e donarvi) sulla fatiscenza e incuria della Città Vecchia di Cosenza, nella quale i muri scolorano e quasi si sciolgono (ma ancora non crollavano come è poi successo nella realtà); quello cosentino è uno dei centri storici più belli d’Italia e provo dispiacere a vederlo abbandonato totalmente a sé. Abbiamo il dovere di unirci e salvarlo con appelli e iniziative proficue. 

Cattedrale di Santa Maria Assunta, centro storico di Cosenza


Mi piacerebbe molto sapere a chi hai dedicato la prima poesia, se lo ricordi, o che cosa ti ha ispirato nello scriverla. Quanti anni avevi?

La prima poesia era ispirata all’ ‘essere’, quindi idealmente dedicata all’umanità tutta, all’esistenza, o meglio alla riflessione sull’esistenza (ho iniziato in maniera impegnata, con una poesia ‘ontologica’); la dedico,oggi, idealmente al professore di Storia e Filosofia che si occupava del giornalino del Liceo. Non era il mio docente e questo mi lusingò per averla scelta e apprezzata; non ricordo il suo nome ma ricordo il suo viso, ovunque sia ora la dedico a lui.

 Qual è la tua paura più grande e, al contrario, ciò che ti rende più felice?

Spesso ciò che più ci intimorisce è ciò che davvero può renderci felici. Qualche anno fa, ancor prima che facessi un lavoro psicoterapeutico su me stesso (processo che mai finisce, anzi si complica sempre più!) temevo di abitare solo; ora invece è la mia nicchia ideale, protettiva, la “casa” che mi sono conquistato col sudore della mia fronte e col prelievo del mio sangue (sulla questione trasferimento in un luogo totalmente mio e tutto ciò che comporta ne dirò in un catalogo poetico-visivo che uscirà a breve, vi anticipo solo che il titolo sarà Traslochi). Quindi, avere il timore di qualcosa può essere uno sprone a scalare un livello di maggiore consapevolezza e, dunque, maggior benessere.

Cosa pensa Saverio della Morte (non a caso in maiuscolo)?

La Morte è il tema che in filigrana più sviluppo filosoficamente nelle mie poesie, quindi bisognerebbe cercare lì; ma chiesto così a bruciapelo, direi che è fine per chi la vive: un non-essere, un non svegliarsi più (almeno in quella forma), e, nello stesso tempo, un dolore o un “pensiero” per chi rimane, ma anche, e soprattutto, un dovere morale di tenere una memoria il più possibile vicina e aderente all’essere umano vissuto, cosa difficilissima. Ecco una cosa che temerei moltissimo, venir etichettato semplicisticamente, mentre tutta la mia vita è basata sul non imitare modelli prefissati e predigeriti, sul carpire e cogliere, al contrario, le sfaccettature e le complessità dei fenomeni che accadono, la fluidità e la perenne mutevolezza del Fiume in cui siamo immersi e di quello che si prova standoci dentro.

Mi affascina sempre scoprire ogni giorno di più tanti medici, psicologi, ingegneri, fisici, professionisti nel ramo scientifico che trovano espressione nella scrittura. Quando hai capito quale strada intraprendere e cosa ti ha portato alla professione di psicoterapeuta?

I primi libri che ho letto, a tematica psicologica, sono stati quelli di Sigmund Freud, il quale, come sappiamo, era uno scrittore eccelso, quindi sono stato affascinato sia dal “metodo” di ragionamento che dalla sua esposizione brillante. Ero un adolescente. Credo di aver scelto inconsciamente già in quella fase della mia vita, ma professioni come quella dello psicoterapeuta, così radicate nell’essere e basate sulla vocazione assoluta – quando autentica, ovviamente – si scelgono con la nascita, col nascere, o meglio sono loro che “scelgono” te (si è come “investiti”, si può dire, e vale anche per la “professione” non remunerata del poeta). Pensiamo, a supporto della “chiamata” innata, al concetto di “ghianda”, come la chiama James Hillman, una sorta di seme potenziale destinato a diventare ‘quella’ pianta specifica e nessun’altra, pena la morte psichica; oppure all’idea del prescelto e raro “guaritore ferito”: solo colui il quale ha lavorato, e lavora, criticamente sui propri nodi (che sono, poi, frequenti e comuni ai nodi di molti esseri viventi), può comprenderli e aiutare gli altri a prendere il sentiero del sollievo o superamento di quel dolore o di quella difficoltà.

Adesso parliamo del tuo ultimo libro, Osicran o dell’Antinarciso, Il Convivio Editore, 2024. Cosa vuoi ri-velare o rivelare al lettore, sin dal titolo?

La deriva della nostra società da almeno un secolo e mezzo, la fine del senso collettivo del vivere e l’egemonia dell’Io, errante, impazzito e omicida del Vero Sé, l’uomo che danneggia per invidia e complesso di inferiorità chi si è sacrificato per fare di più e meglio di lui o lei, come il “soggetto” che pochi giorni fa ha pubblicato una conversazione privata con me, traviandone il messaggio, minacciandomi, diffamandomi e dichiarando il falso. Fino a che punto sono turbe mentali e fino a che punto è una irrecuperabile deriva narcisistica, sposata, in questo caso, con la “cultura dell’immagine” del ‘FacciaLibro’? Non è un caso che questo individuo “non ci metta la faccia” e non abbia risposto alle ripetute telefonate per affrontare un eventuale messaggio frainteso. Stiamo tutti attenti. C’è pochissima tutela su questo genere di piattaforme. La diffamazione ha ucciso talenti immensi, bisogna denunciare subito e combattere queste aggressioni arbitrarie e illegali. L’onore e la reputazione costruita negli anni possono venire spazzate con un dito, non più sulla superficie dell’acqua, come avveniva nel mito del giovin Narciso, ma sullo schermo di un dispositivo tecnologico.

Come immagini sia il lettore dei tuoi libri? Chi credi acquisti e legga Osicran o dell’Antinarciso?

Non ho un identikit del mio lettore ideale, anzi spero vada tra le mani di persone che mai mi immaginerei o aspetterei, è un innamoramento, un caso-non-caso, bisogna leggere un libro spinti dall’istinto e da quella scintilla indescrivibile. Spero sia un ragazzo o una ragazza, un uomo o una donna, incuriositi da quella strana copertina un po’ dark, sulla quale figura una radiografia di una colonna vertebrale, fotografia che vorrò stampare come vera e propria opera d’arte, quella della sacralità di essere profondamente sé stessi, sottopelle, sotto la superficie dell’immediatamente visibile e percepibile.

Uscita n.5 della Rivista Metaphorica


Sono personalmente molto preoccupata per l’avvento massivo della “I.A.”. Amo la tecnologia, ma qui credo sia più di etica, che si possa parlare, di politica e sociologia, perfino di antropologia, più che di tecnologia. Come vive chi crede ancora nella poesia, nel cartaceo, nelle riviste di Poesia e Arti visive, tanto da sfidare ogni pseudologica commerciale e dirigerne una come «Metaphorica»?

Da combattente, ma un combattente defilato, ritirato, che ama fare i fatti più che i fumismi. Il potere dell’azione umana veramente creatrice non verrà mai sostituito, questo perché nessun apparecchio tecnologico possiede la complessità delle nostre emozioni, la storia delle nostre memorie corporee e il continuo “rimpasto” che ne fa la nostra mente assetata di significati sempre nuovi. Ogni arte ha una sua arte della composizione, nella poesia c’è lo studio della metrica (anche e soprattutto se si utilizza il verso libero, che mai davvero “libero” è) e delle figure retoriche - non a caso all’interno di «Metaphorica» c’è una sezione fissa chiamata appunto ‘Rhetorĭca’, sapientemente compilata dagli scritti di Stefano Jossa e David La Mantia, che ci permette di studiare e ripassare costantemente questi aspetti, invitando a leggere e rileggere i grandi poeti e poetesse del passato o della modernità. La grande sfida è quella di passare ai giovani l’arte della pazienza, dell’ascolto prolungato, della maieutica naturalmente dotata dei tempi lunghi del partorire. Occorre avere grande cura per non “buttare” il proprio talento, resistenza, resilienza, accettando, tra le tante sfide, che qualcuno possa stracciare con un giudizio avventato i tuoi versi, arrogandosi, magari, un’autorità inventata. Non dimentichiamo mai come l’attesa, la frustrazione, l’inciampo, la delusione e, infine, la caduta ci rendono davvero umani. Queste apparenti disavventure rappresentano, invece, la preziosità dell’oro che può legare i frammenti rotti, dispersi e violati dall’impatto, nonché la “prima materia” a partire dalla quale avere il coraggio di denudarsi dalle innumerevoli sovrastrutture della nostra epoca e tornare a comunicare disarmanti e disarmati. 


N.d.A.
Ringrazio Saverio per la disincantata fanciullezza dello sguardo, che rimane pur sempre attento e acuto, come del resto tratto comune a molti veri artisti. 








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