POESIA ALL’OPERA – Stefania Giammillaro - “Questo è il fin di chi fa mal”. La morte come appartenenza

Stefania Giammillaro



Questo è il fin di chi fa mal:

 e de' perfidi la morte

alla vita è sempre ugual!




 

Il Don Giovanni, titolo originale: Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, sottotitolo: Dramma giocoso in due atti, fu composto da un trentunenne Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte.

L’opera, che segue Le nozze di Figaro e precede Così fan tutte ha, in realtà, ben poco del carattere buffo e giocoso, pur riscontrato e catalogato dallo stesso Mozart; non solo perché si ravvisano elementi tratti dall'opera seria, come i pezzi scritti per Donna Anna e Don Ottavio, ma anche e soprattutto per lo scopo moralistico che si propone di divulgare, stigmatizzando il malcostume e riuscendo al contempo nella missione di far assurgere i suoi autori al ruolo di precettore servile al cospetto della corte: ricordiamo che il Da Ponte era a servizio del Sacro Romano Imperatore. Indicativa, a tal proposito, la scelta “stilistica” di assegnare la parte ad un baritono o basso-baritono, chiamato a vestire i panni del tipico basso buffo settecentesco.

La morte, dunque, per il dissoluto punito Don Giovanni non può che essere fatale, esemplare, "leviatana”, insomma. Lui che fino alla fine non si è pentito, non ha ceduto ai dettami dell'etica alto-borghese, nonostante la possibilità concessagli dal Commendatore, il quale, dopo essere stato ucciso a duello per mano dello stesso Don Giovanni, si presenta a quest’ultimo sotto forma di statua commemorativa, assetato di vendetta e di senso di giustizia morale.


Commendatore: Tu m'invitasti a cena:

il tuo dover or sai.

Rispondimi: verrai

tu a cenar meco?

[…]

 

Don Giovanni: A torto di viltate tacciato mai sarò!

Commendatore: Risolvi!

Don Giovanni: Ho già risolto!

Commendatore: Verrai?

Leporello (a Don Giovanni): Dite di no.

Don Giovanni: Ho fermo il core in petto, non ho timor: verrò!

Commendatore: Dammi la mano in pegno!

Don Giovanni: Eccola!

Don Giovanni: Ohimè!

Commendatore: Cos'hai?

Don Giovanni: Che gelo è questo mai!

Commendatore: Pèntiti, cangia vita: è l'ultimo momento!

Don Giovanni: (vuol sciogliersi, ma invano) No, no, ch'io non mi pento:

vanne lontan da me!

Commendatore: Pèntiti scellerato!

Don Giovanni: No, vecchio infatuato!

 

Don Giovanni muore, dunque, raggelato nella sua viziosa scelleratezza, a causa della sua ingordigia libertina. Gelo che pervade anche coloro che lo conobbero: nessuno piangerà veramente la sua dipartita, neanche il fidato servo Leporello.

La morte è condanna predeterminata "a monte" per Don Giovanni, da cui non si sfugge e neanche le sue doti da grande ammaliatore e seduttore serviranno a dargli scampo dalla stessa.

Don Giovanni muore per mano della morte che ha per primo cagionato.

Ma se ci si pensa un attimo, chi ha scampo dalla morte?

Come può intendersi di per sé “punizione” un qualcosa previsto per natura?

Non a caso, è fattispecie tipizzata ed incriminata, l’ “uccidere”, il “procurare la morte” (omicidio), ma non “il morire” in sé.

Il suicidio non è, infatti, penalmente rilevante.

Come si può condannare, d’altronde, chi forse prima del tempo previsto, percepisca più urgente e, per l’effetto, “insopportabile” questa imprescindibile, ontologica appartenenza alla morte? Come dargli torto?

Non v’è torto, solo tormentata consapevolezza nei versi di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) morta suicida alla giovanissima età di ventisei anni, dopo aver assunto barbiturici in una fredda sera del dicembre 1938, lasciando traccia della propria «disperazione mortale» sul biglietto di addio ai genitori, che negarono la “scandalosa” circostanza dell’accaduto.

Antonia Pozzi


Io sono il fiore

di chissà qual tronco sepolto

che per essere vivo

crea figli

su dall'oscuro

grembo della terra –

Io sono un fiore diaccio –

straniato

da ogni umana pietà o preghiera

e l'aria che mi cinge

è vuota –

senza respiro –

ombrata

da funerei cipressi –

O chi darà

al fiore,

alla sua corolla dolente,

la forza estrema di interrarsi?

 

24 gennaio 1933

(Disperazione, Antonia Pozzi da “Mia vita Cara – Cento poesie d’amore e di silenzio” a cura di Elisa Ruotolo, InternoPoesia, 2019)

 

C’è, in chi sceglie la morte, un orecchio in più, un naso in più. Si annusa costantemente l’essere nato fiore appassito che non marcisce, che non conosce sole a mietere clorofilla, neanche l’aria accede al respiro “ombrata da funerei cipressi”, di cui si ascolta l’agitarsi delle fronde verso la sola linea di demarcazione che conta.

E’ un canto annidato a Novembre, quello della Pozzi, che sceglie il mese recante il giorno celebrativo dei defunti per immaginare la propria fine, che già distintamente vede, di cui già si accorge in quella “bambina gracile/all’angolo d’una strada” che vende crisantemi: sì, chi si suicida ha anche un occhio in più.

 

E poi – se accadrà ch’io me ne vada –

resterà qualche cosa

di me

nel mio mondo –

resterà un’esile scìa di silenzio

in mezzo alle voci –

un tenue fiato di bianco

in cuore all’azzurro –

 

Ed una sera di novembre

una bambina gracile

all’angolo d’una strada

venderà tanti crisantemi

e ci saranno le stelle

gelide verdi remote –

Qualcuno piangerà

chissà dove – chissà dove –

Qualcuno cercherà i crisantemi

per me

nel mondo

quando accadrà che senza ritorno

io me ne debba andare.

 

Milano, 29 ottobre 1930

Novembre, Antonia Pozzi in www.sololibri.net


Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996) conosce la morte alla tenerissima età di sette anni, quando la madre, l’inglese Marion Cave, attivista del partito laburista britannico, decide di raccontare nel dettaglio a lei e al fratello dell’assassinio del padre Carlo. Il suo suicidio nel 1996, preceduto da forti esaurimenti nervosi e da un nascosto quanto ricorrente via-vai da cliniche psichiatriche, non sembra tanto porre la parola “fine” alla sua vita, ma piuttosto alla sua ossessione, quella che fin da bambina le sussurrava che non fosse per questo mondo, ma per l’altro.


Amelia Rosselli



Ma se la morte vinceva era la corrosione ad impedirmi di

rivelare agli altri ciò che mancava in me. La scienza dei

numeri era la mia fortitudine, la scienza degli amori la

mia debolezza. Io non sono un Cinese! Non ho potere! Le

mie condizioni sono di naufragare! Nel naufragio della

grande rondine che sorvolava su della mia testa veramente

tonda era il segreto della mia misantropia. Cantavo storie

e scendevo di un gradino ad ogni mal passo. Su della mia

testa veramente tonda nasceva il quadrato della certitudine.

Se nella testa veramente tonda nasceva il ritorno impossibile

alle antiche maniere allora nella mia testa veramente tonda

cadeva il grano il sale di Dio, l’ultima miniera. Se nella

tonda testa di Dio era l’incremento della giornata allora

nelle smorfie dei giovani intravvedevo la bontà. Ma la

pece, il nero, la grandine, le sfuriate, la rivolta, la

cannonata, il paese fuori di sé controllava ogni mia mossa.

Antica civiltà descritta nei libri tu sei la rivolta che

non si fece domare, tu sei il mare che tinge di rosso la

sfuriata dei venti e porta all’alba una canzone.

(da Variazioni Belliche 1960-1961 in Rosselli – Le Poesie A cura di Emmanuela Tandello, Prefazione di Giovanni Giudici, Garzanti, IV ed. 2022, p. 205)

***

Se la colpa è degli uomini allora che Iddio venga

a chiamarmi fuori dalle sue mura di grossolana cinta

verdastra come l’alfabeto che non trovo. Se il muro

è una triste storia di congiunzioni fallite, allora

ch’io insegua le lepri digiune della mia tirannia

e sappia digiunare finché non è venuta la gran gloria.

Se l’inferno è una cosa vorace io temo allora d’essere

fra quelli che portano le fiamme in bocca e non

si nutrono d’aria! Ma il vento veloce che spazia

al di là dei confini sa coronare i miei sogni anche

di albe felici.

(da Variazioni Belliche 1960-1961 in Rosselli – Le Poesie A cura di Emmanuela Tandello, Prefazione di Giovanni Giudici, Garzanti, IV ed. 2022, p. 261).


La morte è un’alba felice, è un ricongiungersi al vero, più autentico, reale definitivo umano: non è più ammissibile tenere in prigione la tensione all’assoluto, pena infettare il più minuscolo anfratto di carne, ulcerare ogni singolo rivolo di sangue.

Si nasce, d’altronde, già condannati a morte, in attesa del verdetto.

Quest'ultima considerazione, all’apparenza scontata, è stata riportata in auge sul piano filosofico-metaforico da Albert Camus (Mondovi7 novembre 1913 – Villeblevin4 gennaio 1960ne Lo Straniero, ove si narra la storia del piccolo impiegato Meursault, che conduce, come tanti, un'esistenza chiusa in uno squallido conformismo. Un giorno, quasi per caso, Meursault uccide un arabo, ma una volta arrestato, non tenta di giustificarsi né di difendersi: viene processato e condannato a morte.

"Durante il giorno c'era il ricorso. Credo di aver sfruttato al massimo quell'idea. Valutavo gli effetti ed ottenevo il miglior rendimento dalle mie riflessioni. Partivo sempre dall'ipotesi peggiore: il ricorso veniva respinto. "Be', allora morirò". Prima di altri, evidentemente. Ma tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta. In fondo sapevo che morire a trent'anni o a settanta importa poco, giacché in entrambi i casi, naturalmente, altri uomini e altre donne continueranno a vivere, e questo per migliaia di anni. In sostanza, era tutto chiarissimo. A morire ero sempre io, subito o tra vent'anni che fosse. A quel punto, la cosa che mi disturbava un pò nel mio ragionamento era il tremendo sussulto che avvertivo in me al pensiero dei vent'anni di vita ventura. Ma mi bastava soffocarlo immaginando i miei pensieri di lì a vent'anni, quando mi sarei trovato comunque in quella situazione. dato che si muore, il come ed il quando non importa, era chiaro. Pertanto (e il difficile era tener d'occhio ciò che quel "pertanto" rappresentava in termini di ragionamento), pertanto dovevo accettare il rifiuto del mio ricorso.

A quel punto, solo a quel punto, avevo per così dire diritto, mi davo in qualche modo il permesso, di affrontare la seconda ipotesi: venivo graziato. E lì il problema era che dovevo frenare lo slancio di sangue e di corpo che m'infiammava gli occhi di una gioia insensata. Dovevo sforzarmi di calmare quel grido, di farlo ragionare. Dovevo essere naturale anche in quell'ipotesi, per rendere plausibile la mia rassegnazione nell'altra. Se ci riuscivo, avevo guadagnato un'ora di calma. In ogni caso, non era poco."

(A. Camus - Lo straniero – Bompiani 2018, prefazione di Roberto Saviano, traduzione di Sergio Claudio Perroni)

Lo Straniero - A. Camus - Bompiani


E allora, forse, questo imperterrito senso di appartenenza alla morte, questa ineluttabile forma di auto-condanna può assomigliare alla possibilità di trovare il proprio inquirente interiore ed estraniarlo da sé, collocarlo in una dimensione di alterità quantomeno rispetto all’anima, al fine di dare anche un minimo spazio a quel 50% di possibilità per essere (auto)graziati e risorgere negli anni futuri che ci è concesso o ci si concede di vivere.


Fonti:

Wikipedia.org - Don Govanni - Opera

www.librettidopera.it

Wikipedia.org - Antonia Pozzi

Wikipedia.org - Amelia Rosselli

www.elle.com


 

Commenti

  1. La morte : la lotta del dionisiaco e l’apollineo nello specchio illusorio del mondo

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