LA LINGUA MISTERIOSA DELLA POESIA - Anna Spissu - Altan e il fantastico potere della satira

 

Anna Spissu



Oggi la lingua misteriosa parte da una vignetta di Francesco Tullio Altan in arte Altan, notissimo fumettista e umorista satirico.

La vignetta ritrae una coppia, di profilo, alla maniera del suo autore: lei col grembiule davanti ai fornelli mentre rimescola quel che c’è in una pentola e lui, dietro di lei, vestito da casa e in canottiera, il braccio lungo il corpo e nella mano un paio di fogli color rosa.

Il dialogo è questo:

 

Lui: “Ho scritto una poesia.

Lei: Bravo. E adesso porta giù la spazzatura.




Il fantastico potere della satira: sorridere e rattristarsi al tempo stesso. Riassumere in poche battute quel che potrebbe essere oggetto di saggi e convegni sulla percezione “comune” dell’utilità della poesia in confronto alle incombenze quotidiane.

Altan è un artista di chiara fama, straordinario captatore di umori e verità dei nostri giorni. Aggiungere che ha ottantadue anni non è banale perché significa essere portatore di esperienza, aver visto molte cose.

Anche grazie al film che è stato girato sulla sua vita, è diventato noto a molti il comportamento del padre di Alda Merini quando lei gli mostrò la recensione di una sua poesia da parte del critico letterario Giacinto Spagnoletti: anziché lodare la figlia, quei fogli di carta vennero stracciati dicendo che la poesia non procurava il pane e quindi era meglio starne alla larga. Conclusione certo non nuova né originale, già il poeta latino Orazio, con il suo “carmina non dant panem”, aveva stabilito in modo lapidario che da un punto di vista utilitaristico scrivere poesie non è un’idea brillante.

Mio padre non ha mai letto una mia poesia, nemmeno me l’ha mai chiesto, ma quando facevo il liceo se c’era un problema di matematica che non riuscivo a risolvere, nonostante tornasse sempre tardi dall’ufficio, non andava a letto fino a che non aveva trovato la soluzione. Idem se dovevo prendere un treno la mattina presto, si alzava anche alle quattro del mattino pur di accompagnarmi in auto in stazione anche se non glielo chiedevo. Faceva cose utili insomma.

L’ho perdonato pensando che aveva fatto la guerra in Africa e dicendo a me stessa che morti, battaglie, fame e paura di morire dovevano aver ristretto per sempre il concetto di utile.   

Poi esiste anche chi, con un certo disprezzo, utilizza i libri di poesia per scopi tutt’altro che propri: so di una persona che, pur avendo a disposizione ben altri e più efficaci mezzi, utilizzava ogni sera un libro di poesia come fermaporta, in modo da favorire il passaggio dell’aria da una stanza al corridoio. Se siete anime candide potete attribuire a questo fatto un non so che di romantico pensando che la poesia è un soffio magico ed è bello che aiuti il transito dell’aria.

Se questo invece vi suscita un moto di indignazione piccolo piccolo, sappiate che è anche il mio, in questo siete mie sorelle e fratelli.

A chi scrive in prosa anziché in versi le cose vanno meglio, non si discute l’utilità ma si svilisce la fatica. Gli scrittori, però, spesso regolano i conti direttamente nei loro romanzi, fanno dire ai personaggi quello che gli è rimasto sullo stomaco. Di seguito, da “Il libro dei Baltimore”, ecco cosa scrive Joel Dicker, autore di romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui, il famosissimo “La verità sul caso Harry Quebert”:

“La gente crede che, in quanto scrittore, la tua vita sia abbastanza tranquilla. Recentemente un mio amico, dopo essersi lamentato per i suoi spostamenti quotidiani tra casa e ufficio, mi ha detto: “Tu, in fondo, la mattina ti alzi, ti siedi alla scrivania e scrivi, Tutto qua.” Non gli ho risposto niente, forse per lo sconforto di rendermi conto fino a che punto, nell’immaginario collettivo, il mio lavoro consista nel non far niente. La gente pensa che non combini nulla, ma è proprio quando non fai niente che lavori di più.”

E i poeti? Quand’è che si tolgono “i sassolini dalle scarpe”? Come e cosa rispondere a chi ha chiesto (e a chi lo ha pensato): “cosa ci guadagni a scrivere poesie?”

Certamente si potrebbe rispondere citando per esempio alcune frasi tratte dal discorso di Montale al Nobel: “Non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è largo spazio per l’inutile e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile”.  Tuttavia, per quanto il discorso del Nobel sia profondo, colto, condivisibile e ci abbia emozionato leggerlo, è abbastanza improbabile che interessi l’interlocutore che ha posto la domanda di cui sopra.

Dunque mi permetto di suggerire una strategia diversa: in primis, non rispondere assolutamente a quella domanda, non cadere nella trappola delle spiegazioni/giustificazioni.

In secondo luogo, fare presente all’interlocutore che non potete rispondere perché vi ha fatto la domanda sbagliata!  Quella giusta, quella che merita una risposta è questa: “Cosa perderesti se non scrivessi poesie?”

Qui ciascuno avrebbe le sue risposte ma certamente comune denominatore sarebbe la vita, con dentro tutte le cose per le quali vale la pena vivere. Ci sono certamente anche altri modi di conservare vita sogni, speranze, amori, felicità, dolori e l’infinita gamma di emozioni che l’animo umano riesce a provare, la lingua misteriosa non è l’unico mezzo ma credo che difronte al rovesciamento della domanda il concetto di utilità mostri tutta la sua forza e espansione.

Cosa ci può essere di più utile per un essere umano che restare vivo? (non solo nel corpo s’intende!)

Perciò, cara Signoracasalinga di Altan, continui pure a mescolare la minestra, stia attenta che non bruci ma sappia che l’uomo dietro di lei ha in mano fogli pieni di parole e sogni e destini, vale la pena di spegnere il fuoco, girarsi e ascoltare.

Sappia però che anche la lingua misteriosa ama l’ironia perciò le regalo volentieri questa poesia di Joyce Lussu che mi pare estremamente utile per la vita coniugale.

A che cosa serve la poesia? Può servire.

Vi faccio un esempio.

Prendete una coppia che va abbastanza bene:

due o tre lustri di convivenza

casa figli interessi comuni.

I coniugi però, non essendo né sordi né orbi

né privi di altri sensi

naturalmente non immuni

dal notare che il mondo è pieno di persone attraenti

dell'altro sesso

di cui alcune, per circostanze favorevoli,

sarebbero passibili di un incontro a letto.

 

Sorge allora un problema che propone tre soluzioni.

 

La prima è la tradizionale repressione

non concupire eccetera non appropriarti dell'altrui proprietà

per cui il coniuge viene equiparato a un comò

Luigi XVI o a un televisore a colori

o a un qualsiasi oggetto di un certo valore

che non sarebbe corretto rubare.

 

La seconda soluzione è l'adulterio

altrettanto tradizionale

che crea una quantità di complicazioni

la lealtà (glielo dico o non glielo dico?)

lo squallore di motel occasionali

la necessità di costruire marchingegni di copertura

che non eliminano la paura

di fastidiose spiegazioni.

 

La terza soluzione è senza dubbio la più pratica

Si prendono i turbamenti e i sentimenti

le emozioni e le tentazioni

si mescolano bene si amalgama l'immagine

con un brodo di fantasia

e ci si fa su una poesia

che si mastica e si sublima

fino a corretta stesura sulla macchina da scrivere

e infine si manda giù

si digerisce con un po’ di amaro

d'erbe naturali

e poi non ci si pensa più.

 

Per la spazzatura non si preoccupi: per stavolta, mi offro io.

Cordialità. 


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