FILI D’ERBA – Viola Bruno - Luce d'Agosto: di polvere e desiderio

 

Viola Bruno


Certe giornate verso la fine di agosto sono così, l’aria sottile e pungente come questa, con qualcosa di mesto e nostalgico e familiare.
L’uomo è la somma delle sue esperienze climatiche, diceva il babbo. L’uomo è la somma di tutto quello che vuoi. Un problema sulle proprietà impure portato tediosamente fino a un invariabile zero: punto morto di polvere e desiderio.”

(William Faulkner, da L’urlo e il furore, 1929)

Capita ogni volta. Di sentire l’aria traballante, la luce incerta del pomeriggio in congedo.

Capita di ritrovarsi nel punto esatto in cui l’estate muore e di stupirsi ancora dinanzi a quella morte apparente - mesta, nostalgica, familiare - riga silenziosa che separa da nuova vita, dimenticando in un istante “agosto, quelle sere lunghe e attonite in cui ci lasciavamo morire sotto il peso dell’ora, con i vestiti appiccicati al corpo per il sudore, mentre sentivamo fuori il ronzio insistente e sordo dell’ora che mai trascorreva.” 


È “La fine di qualcosa”, direbbe Hemingway, titolando così uno dei suoi Quarantanove Racconti, qualcosa che “non è più divertente”, che ha esaurito tutta la propria vitalità, “come se tutto fosse andato in malora” e debba perciò necessariamente finire. 

Esiste un attimo di sospensione, rumore di remi nell’acqua di una barca che se ne va mentre si rimane a terra, consapevoli di ciò che è stato, aspettando di ritrovare nuove coordinate, di riprendere i battiti, di volgere lo sguardo oltre quella riga.

Di quell’Agosto, così simile ad un tramonto dolceamaro, canta anche Federico García Lorca in Canciones, attraverso una semantica del cibo, trasformata in arte:

 

Agosto.

Controluce a un tramonto


di pesca e zucchero.

E il sole all’interno del vespro,

come il nocciolo in un frutto.


La pannocchia serba intatto

il suo riso giallo e duro.


Agosto.

I bambini mangiano

pane scuro e saporita luna.


(Gabriel García Márquez, da Occhi di cane azzurro, 1972)

Da quel “caldo, immobile silenzio del pomeriggio di agosto che sa di pino e di mosto”, che porta ad aspirare a quella linea sottile da cui, inesperto funambolo, cade nel mare il sole, fino alla nuova stagione che è già lì, trasparente sotto i tralci svuotati, dolce e matura come le mele vizze in Winesburg, Ohio (I Racconti dell’Ohio,1919), capolavoro di Sherwood Anderson, gigante statunitense classe 1876, di cui Faulkner disse “è stato il padre di tutti i miei libri”. 

Dentro e intorno ai personaggi di questi racconti, con pennellate da vero maestro, Anderson dipinge un quadro perfetto, ricco di sfumature psicologiche, a tratti comiche, a tratti tragiche, sempre immerse in arie descrittive strabilianti.

Winesburg è una cittadina immaginaria dell'Ohio. Siamo nel 1890. Contesto rurale, middle-western. George Willard, giovane cronista del Winesburg Eagle, è il trait d'union che zompa da un racconto all'altro, talvolta protagonista, spesso depositario delle confidenze e delle storie degli abitanti del villaggio, ventidue caricature con un'avventura da raccontare. Un' avventura che ha cambiato una vita. Spesso questo libro è stato, non a torto, ribattezzato l'Antologia di Spoon River in prosa.

Ma forse in pochi conoscono la dolcezza delle mele vizze…

 “È una storia deliziosa, come le mele bitorzolute che crescono nei frutteti di Winesburg. In autunno si passeggia per i frutteti e la terra sotto i piedi è dura per il gelo. Le mele sono già state raccolte dagli alberi. Sono state messe in barili e spedite in città, dove saranno mangiate in appartamenti pieni di libri, riviste, mobili e gente. Sugli alberi rimangono soltanto poche mele rugose, che i raccoglitori hanno trascurato. Somigliano alle nocche delle mani del dottor Reefy. Vi si affonda i denti e sono deliziose. Se uno le assaggia si accorge che sono deliziose. In una piccola parte tonda si è conservata tutta la dolcezza della mela. Si corre di albero in albero, sul terreno gelato, cogliendo le mele vizze e grinzose e ci si riempie le tasche.”

Ed è proprio questa la sensazione che stupisce ogni volta, quando la luce di agosto lascia intravedere, non ancora troppo vicina, la sagoma di un settembre all’apparenza malinconico, vizzo, come simbolo dell’età matura, della sfioritura, della foglia che inizia ad ingiallire e, lentamente, a cadere. 

E invece no, è lì l’inaspettata aurora, lì tutta la dolcezza conservata, che esploderà nei suoi colori caldi, nei suoi profumi, nei sapori pieni dei suoi frutti, in nuova vita.

Se fosse una musica: Vinicio Capossela, La faccia della terra, ispirata a I Racconti dell'Ohio

Vinicio Capossela - La faccia della terra 

Se fosse un dipinto: Andrew Wyeth, Frostbitten,1962





Si spegne tra righe di nubi

il cielo di agosto.

 

Opposto il capo dalla coda

ripido il passo dalla fonte

che scivola alla foce.

 

È morte e ancora vita,

questo giorno.

 

(Trentuno agosto, Viola Bruno)

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