RUGIADE. Novità sugli scaffali - Madre che resta di Patrizia Baglione. Nota critica a cura di Melania Valenti

 



Madre che resta di Patrizia Baglione, con corposa e sapiente postfazione di Francesca del Moro, è appena uscito in autopubblicazione, e non perché alla poetessa manchino qualità o mezzi per farlo con editori di spicco. Vedo in questa scelta l’anima dell’autrice: immediata, spontanea, pensata e sofferta come lo è la sua opera fino all’ultimo punto, fino alla chiusura - Io, madre che resta, / sorreggerò la croce.

Colgo quindi, anche nella scelta dell’autopubblicazione, una presa in carico di tutto ciò che ha portato alla stesura di questa raccolta, dal dolore iniziale, al punto fermo con cui la Baglione cerca un po’ di pace.

Sono tutti componimenti di “carne ed ossa”; il corpo è presente ovunque, pure dove pare nascondersi – la pancia nera, il corpo, la pelle, la carne, le mani, il viso, gli occhi, il costato, l’utero – e da quel corpo, in un chiaroscuro a sprazzi illuminato dall’azzurro del cielo, l’anima si perde nel ricordo.

È un incedere tra le pieghe della memoria, cercando l’assoluzione ad iniziare da se stessa, assoluzione invocata e, sin dalla chiusa della lirica della D’Amato che apre il libro, forse trovata, se può ripetere con noi: caro diario, / sono guarito.

Sapiente l’uso di un lessico preciso ed evocativo, di strutture che vanno dalla prosopopea alle allegorie alle metafore, ricorrenti lungo tutta l’opera (un esempio fra tutti, la caverna a pag. 9 come il ventre materno). La madre si fa occhi e bocca e corpo del bambino mai nato, dandogli così quella vita mai avuta.

Ma, accanto alla materia, è presente ovunque quel senso di levità che accompagna per mano il lettore, quelle nuvole e quel cielo che fanno da cupola agli elementi della Natura (Madre anch’essa), onnipresente contraltare al dolore ed in cui tutto è etereo, tutto danza una sola musica (p. 13). È una natura salvifica - Un occhio ascolta la terra, / la terra ci libera dal male (pag. 19), una croce salverà questo momento dalla fine (p. 13), i cui elementi danno alla raccolta il respiro della speranza oltre il dolore della perdita – un solo colpo/ e poi/ sarai di nuovo vento (p.15).

Spesso ci si sente avvolti da un’aura quasi magica - attenta alla bocca, / intrisa di luna (p.18), in cui non vi è un tempo cronologico, ma il Tempo del dolore, della scelta, della morte e della rinascita, per tornare a poter essere madre – Nascerò nuovamente donna/ per partorirti davvero.

Si percepisce il Tutto, non le parti; non una singola cesura si avverte nella forma come nell’intenzione, che è proprio di consegnarci la totalità di ispirazione e argomento, che si fa totalità della donna con il figlio, sempre presente, e con ogni elemento di Natura e Creato. Il tutto, con un coraggio e una sincerità che non è usuale rinvenire in un momento storico in cui la poesia italiana ha forse una tendenza più ermetica e celata. Benché, invece, nello stile della Baglione non manchino riferimenti colti, ciò che colpisce è, a mio parere, proprio la spietata nudità dei sentimenti, la sincera consegna di tutta se stessa al lettore.

Questo rimane nella mia mente, appena finito di divorare l’opera, un senso di accompagnamento lungo un cammino che dalla disperazione cerca una via alla speranza, che ci fa dire con l’autrice

 

Voglio adottarmi intera

imparare a tremare,

vedermi unita, mai più separata

un pezzo a destra, l’altro,

a sinistra – combattuta

pure di me stessa.

Accogliere la paura,

fiorire in trasparenza

 

voglio smettere di morire

un po’ alla volta.


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