Il diario di Dafne di Ester Guglielmino - "Ridateci la parola"

 

Ester Guglielmino



Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Sono un uomo e nulla di umano considero a me estraneo). Era il secondo secolo avanti Cristo e il giovane Tito Terenzio Afro, poi commediografo di chiara fama, metteva in bocca a Cremete (il protagonista di una delle sue commedie più note) questa famosa massima, che lo avrebbe consegnato immortale ai libri di storia. 
Era il momento del folgorante incontro fra la cultura greca e quella latina e l’ideale di humanitas, così denso di sviluppi futuri, si apprestava ad avviare il suo corso. Era l’idea di un ‘essere uomo’ ancor prima che ‘singolo individuo’; l’idea che non esista umano che non ci riguardi; l’idea che tutti gli uomini siano parimenti fragili e indifesi da loro stessi e dal mondo che sta loro attorno; l’idea che l’unica strada fertile sia quella di riconoscerla questa fragilità e di convertirla in disponibilità e apertura verso l’altro da sé.

Nasceva dalle medesime riflessioni anche la promettente tradizione degli studia humanitatis, intesi come progressiva acquisizione di un bagaglio culturale che diventasse pure percorso pedagogico di formazione completa dell’individuo. 
Una formazione da compiersi - in fanciullezza e in adolescenza - all’interno della scholé (che in greco vuole dire ‘vacanza’ o ‘riposo’) ossia di uno spazio condiviso che fosse contesto di dialogo, di scambio, di crescita; un luogo in cui l’individuo, libero dal negotium degli affari concreti, potesse dedicarsi all’otium degli studi, al fine di essere educato (dal latino e-ducere infatti, che, nello specifico, vuol dire passare da uno stato fisico e culturale inferiore a uno superiore). 

Quasi una piacevole vacanza dalla vita, insomma, in cui trovare sé stessi per poi poterne fare dono agli altri. Da qui la centralità affidata a tutte le discipline che mettessero al centro la parola: la retorica, l’oratoria, la letteratura e - seppur tra i Romani con qualche reticenza in più - la filosofia. 

La parola quindi viene riconosciuta dal mondo classico come strumento essenziale di elaborazione del pensiero, di confronto critico, di crescita non solo personale ma comunitaria. Chissà cosa ne penserebbero - mi viene da dire - quei ‘vetusti’ Greci e Romani delle famose ‘tre i’ (impresa, informatica, inglese) in cui certe ‘politiche educative italiane’ hanno voluto precipitare il ‘senso ultimo’ del nostro fare scuola (già a partire dal Ministero Moratti, 2001/2006). 

Chissà quanti di loro, ancora, riterrebbero davvero ‘sensata’ l’idea dell’alternanza scuola-lavoro o di tutte quelle iniziative ‘formative’ in cui si consuma - non sempre benissimo - il tempo dell’istruzione. In realtà, se già nel secondo secolo avanti Cristo si parlava di comprensione empatica dell’altro e di sviluppo del pensiero critico e se circa 1600 anni più tardi - in epoca umanistico/rinascimentale - si sentiva il bisogno di tornare alla forte seduzione di tali idee, io credo che oggi - in pieno XXI secolo - dovremmo come minimo chiederci cosa non abbia funzionato. Da dove provenga, insomma, questa smania contemporanea dell’alimentare le distanze, del creare muri, dell’allenarsi al non sentire. Da dove derivi questo progressivo indebolirsi della parola, destinata a sfibrarsi di senso, a diventare solo tutta bianca o tutta nera. È forse il risultato della freddezza dilagante a cui ci ha abituato il virtuale; dello scollamento tra la superficie patinata e la concretezza delle cose? O è piuttosto l’esito di una inadeguatezza estrema davanti a un mondo che non riusciamo più a capire e dominare?

Anche in questo caso, l’indagine è precocemente germogliata più che in ambito scientifico in letteratura. Secondo l'Oxford English Dictionary, il termine «distopia» - dal prefisso greco "δυς" (dys), "cattivo", e "τόπος" (topos), "luogo" - fu coniato nel 1868 dal filosofo John Stuart Mill (1), il quale si serviva spesso anche del sinonimo «cacotopìa» - dall'aggettivo greco "κακός" (cacòs), "cattivo", e "τόπος" -, proposto da Jeremy Bentham (2) nel 1818. Entrambe le parole nascono come contrari del ben più noto e datato termine «utopia» - dalla negazione greca "οὐ" (u), "non", e "τόπος" -, che significa "non-luogo" cioè un luogo che non esiste perché tutto è come dovrebbe essere. «Distopia» (o cacotopia) è quindi l'esatto opposto di «utopia», in quanto fa riferimento a un luogo del tutto spiacevole e indesiderabile.

È proprio nella letteratura distopica che l’idea di dis-humanitas, quasi moderno contraltare della classica humanitas, viene indagata e sviscerata a fondo. Come non pensare, infatti, al disumano che aleggia lungo La strada grigia e desolata di Cormac Mc Carthy, dove un padre e un figlio attraversano un mondo isterilito nella natura, nella parola, nei sentimenti alla ricerca di un oceano purificatore che riservi loro qualche calore umano? O come non pensare ai 451 gradi fahrenheit a cui bruciano le pagine dei libri - e con esse i pensieri, le parole, la memoria - nell’omonimo celebre romanzo di Ray Bradbury, che denuncia parallelamente il potere alienante dei media? E come non pensare, ancora, ai topi feroci della Stanza 101, al loro portato enorme di paura dinanzi a cui soccombe ogni speranza di libertà - e di privacy - dall’occhio indagatore del Grande Fratello, in 1984 di Orwell

Nella letteratura distopica, insomma, tutti gli ingredienti della dis-humanitas, che ora appartengono alla nostra quotidianità, sono scesi in campo già da tempo; il tempo necessario del preconizzare, dell’avvertire, dell’ammonire che forse il post-moderno era meno rassicurante del previsto. Il tempo del dire che se la violenza è la peculiarità della specie, l’acquiescenza ad essa è la caratteristica delle epoche di decadenza; che questa acquiescenza passa attraverso l’impoverimento della parola, che è sempre assottigliarsi in negativo delle mille sfumature del pensiero e annullamento della capacità di narrarsi e di narrare. E cosa diventa l’uomo quando non riesce più a raccontarsi e a raccontare? Diventa un uomo senza tesoro, senza memoria, senza amore.

Allora dovremmo chiederci cosa sia l’odio, come nasca, come si espanda sulle nostre teste. Come si insinui tra le ciglia dei nostri figli, deformando il loro modo di guardare alla propria e all’altrui vita. Se sia un portato della storia o solo un sottofondo innegabile della natura umana. Una sorta di condanna perenne che, da Caino in poi, ci porterà sempre a uccidere il nostro Abele

E poi chi è il nostro Abele? È l’immigrato che certa becera politica vuole farci vedere come lo straniero che ci sottrarrà il futuro? È la donna che dalla specola fuorviante delle sue ‘quote rosa’ continua ancora a lottare per l’emancipazione vera? È la controparte ideologica che si schiera agli antipodi della parola dominante? O è la parola stessa, quella che non riusciamo più a usare e che diventa vuota, ad ora ad ora? Chi è davvero Abele? Il bambino già venduto al suo destino? Il malato di cui temiamo di condividere la sorte? Il ragazzo che ha deviato da un modello d’amore precostituito? Chi è Abele? Forse solo l’immagine indebolita di noi stessi che abbiamo paura di vedere?


La verità è che Abele non è mai soltanto Abele, così come Caino non è mai solo Caino: l’uno e l’altro sono due prospettive inscindibili del nostro essere umani. Dovrebbe essere la società educante a favorire, in ogni uomo, la crescita di Abele e la morte di Caino. Ma può una società fast come la nostra fare davvero maturare il bene che esiste in ogni uomo? Una società che ha creato forbici immense e per la quale l’uomo è insieme fine e oggetto di commercio? Una società che crede di poter sostituire all’humanitas l’elogio del successo personale e dell’economia? Una società che ci blandisce con le immagini per deviare l’attenzione dalla complessa sostanza del reale? Da sempre il disumano è connesso all’umano, ma arginarne le spinte negative e convertirle in energie positive è vera la responsabilità di tutti e di ognuno. Ridateci la parola, allora, ne faremo un uso buono.




1. John Stuart Mill (Londra20 maggio 1806 - Avignone8 maggio 1873), filosofo ed economista britannico, è stato uno dei massimi esponenti del liberalismo e dell'utilitarismo nonché membro del Partito Liberale.


2. Jeremy Bentham (Londra15febbraio 1748 - Londra6 giugno 1832) è stato filosofo, giurista ed economista inglese. Ispirato dalle idee dell’illuminista Cesare Beccaria, fu il primo divulgatore dell'utilitarismo e fu maestro di John Stuart Mill.


Riferimenti bibliografici essenziali:

Tito Terenzio Afro, Il punitore di sé stesso (Heautontimorumenos), a cura di Gabriella Gazzola, BUR, 1990

Marco Balzano, Le parole sono importanti. Dove nascono e cosa raccontano, Einaudi, Torino 2019

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, CdE, 1997

Cormac Mc Carthy, La strada, Einaudi, 2006

Giovanna Garbarino – Lorenza Pasquariello, Vivamus. Cultura e letteratura latina, Paravia, 2022

George Orwell, 1984, BUR, 2021



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Ester Guglielmino è nata a Modica (RG), dove vive da sempre con la sua famiglia. Laureata in Lettere Classiche presso l’Ateneo di Catania, svolge da diversi anni la professione di insegnante di Lettere e Latino. Coltiva l’amore per la lettura e la scrittura declinandolo in varie forme, che vanno dall’organizzazione e mediazione di eventi letterari alla scrittura di recensioni, articoli, racconti per siti internet e riviste on-line. Ha contribuito a edizioni corali di poesie (per Ivvi e nella Collana antologica Fogghi mavvagnoti) e racconti (per Historica). Ha collaborato alla progettazione e scrittura di eventi teatrali e svolto attività di editing. Nel 2022 ha pubblicato, per la Placebook Publishing, Sull’orlo di un bicchiere screziato di rossetto, la sua prima raccolta di poesie. Nel 2023, sempre per Placebook Publishing, è uscita la sua seconda silloge Il canto muto delle stelle. A febbraio del 2024 è stata pubblicata, ancora da Placebook, la sua terza raccolta poetica Altre stagioni di morte e di amore.

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