Anna Rita Merico - MATEI VISNEIC e la derealizzazione spaesante di una realtà tragica

 

Anna Rita Merico


Pensare poesia negli anni del regime di Nicolae e Elena Ceausescu


Vendiamo specchi a coloro che hanno specchi

Vendiamo pianoforti a coloro che hanno pianoforti

Vendiamo auto bianche a coloro che hanno auto bianche

Vendiamo pantaloni a coloro che hanno pantaloni

Vendiamo occhiali a coloro che hanno occhiali

Vendiamo noccioline a coloro che hanno noccioline

Vendiamo slitte a coloro che hanno slitte

Vendiamo gatti a coloro che hanno gatti

Vendiamo una pallottola rossa, pesante e

                                                    capiente

A coloro che hanno una pallottola rossa, pesante e

                                                                    capiente[1]

 

Nella Romania real-socialista un Autore, Matei Visneic, un frontierista dell’anima. Ad anni di distanza dal regime di Ceasescu torna indietro a narrare di come sia esistita una resistenza agita all’interno della cultura. Una generazione (1969-1989) alla ricerca di una possibile identità da lasciar emergere dalle maglie di un sistema sociale e culturale privo d’ogni. Cercare una libertà, pur minima, all’interno del totalitarismo rappresentava un desiderio colpevole, sovversivo. Era politico il solo pensare ad una cultura altra dalla visione culturale ufficiale.

Dai regimi dell’Est giunge chiara come la prima forma di resistenza culturale abbia avuto, come matrice, l’inscindibilità dell’esistenza dalla produzione poetica. Ciò che era necessario era quella capacità sottile di porsi accanto al realismo ottundente e trarne forme volutamente enigmatiche e mimetiche attraverso cui dire amarezza, perdita pur nella capacità di rendere universale la dimensione del fantasticare e l’affondo nell’archetipo. Il dolore profondo, impiagato nella parola, si alza leggero come fosse una dimensione neutra, una bolla di nessuno. Ricamare intorno all’evitamento della censura, tessere come arte capace di relegare la parola al di fuori del controllo, corsa possibile nel verso di un’etica capace di dichiarare lo spazio ultimo della libertà individuale: lo spazio della parola capace, con la sua sola presenza, di dichiarare lo spazio della pluralità.

Stupidità e mediocrità al potere rendono vacuo l’uso del pensiero, l’unica forma possibile è il livellamento neutro che pialla ogni possibile forma. E un pensiero nato per dire libertà è stato storicamente trasmutato in catena. Il nero opaco della vicenda storica si tramuta, nei versi di Visniec, in un passaggio verso la tensione con l’altro nella comunanza di un’appartenenza comune: quella di un’umanità ferita che gocciola nelle esistenze individuali.

 

Scrivo questa poesia al buio

per questo chiedo perdono a chi la leggerà

è possibile che alcune parole si sovrappongano alle

                                  altre

è possibile che alcune lettere restino un po’ tarde di mente

so che il mio messaggio rischia di arrivare totalmente troncato

                            al destinatario

del resto sento che alcune righe si liquefanno

come se il mio stesso occhio vi ci colasse dentro

probabilmente il giorno in cui tornerà la luce

questa pagina sarà un mucchio di segni

un formicaio abitato da insetti

o magari da creature più evolute capaci di

                pregare

il dramma che ho vissuto io però

resterà muto

il segreto che ho voluto trasmettervi

        con questa poesia

sarà un’eterna alzata di spalle[2]  

 

L’universo classico s’affaccia in più momenti del poetare. È boa che consente l’atemporalità attraverso cui avviene la sospensione e l’uscita dal dramma storico. Le mille reclute nude fino alla cintola richiamano le dantesche anime dannate del Cocito. Nei versi avviene una precisa pratica di estraniazione capace di lasciare sfilare la realtà dal dentro del suo duro e lasciarla adagiare in un alveo spiazzante colmo di significato che vuole affrancare sia dalla retorica del potere che dalla mortificazione delle coscienze attraverso la sottrazione di ogni poiesis.

Ero in udienza da Priamo l’uomo con il cappello

fece un passo avanti maestà le mele sono

troppo care e in città quasi non

si trovano più menti gridò Priamo sono sicuro

che stai mentendo e quindi ti rinchiuderò nella torre

io mi asciugai il sudore sulla nuca e l’uomo

con il bastone fece un passo avanti maestà non

abbiamo più abbastanza vernice per la palizzata

d’ora in poi faremo fatica a verniciarla

ogni giorno menti gridò Priamo ne sono

sempre più sicuro e quindi ti richiuderò

nella torre io mi asciugai il sudore sulla nuca

e feci un passo avanti maestà in città

i soldati fanno quello che gli pare va tutto a rovescio

credo che questa storia debba finire il prima possibile

Priamo tossì portò due caffè e mi allungò

una sedia beh insomma adesso vediamo

             beh insomma adesso ne parliamo[3]

Forte l’eco della dimensione kafkiana e del teatro di Ionesco. Quello di Visniec è un assurdo non ossessionato dalla morte. È un assurdo che intende coprire la storia e lasciar affondare l’esistenza in una dimensione in cui le incoerenze, i legacci, gli impedimenti all’essere vengono combattuti non dall’azione, che risulta essere pressoché impossibile, ma dalla parola unico strumento capace di tenere in sé l’intimo nucleo dell’umanità.

In questo Autore, scrittura poetica e scrittura teatrale s’intersecano, l’azione è scenica, la parola è affondo di trasmutazione e viaggio verso una derealizzazione necessaria, la realtà è covo di origine continua. La vicenda personale di Visniec, all’interno del regime di Ceausescu, ha caratterizzato la storia del Cenacolo del Lunedì di Bucarest agli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo.

 

 

 

 

 



[1] Matei Visneic, da Di notte nevicherà, 1980 in Traumaturgie, Stilo Ed. pg 201

[2] Un’eterna alzata di spalle, ivi pag 233  (da A tavola con Marx, 2011)

[3] L’udienza da re Priamo, ivi pag 219 (da La città con un solo abitante, 1982)


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