Anna Rita Merico su Ghiannis Ritsos – Di sguardo alla finestra
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Anna Rita Merico |
“Siedo qui alla finestra; guardo i passanti
e mi specchio nei loro occhi. Credo
di essere
una fotografia silenziosa nella sua
vecchia cornice
appesa fuori della casa, sul muro
occidentale,
io e la mia finestra…”[1]
Immobile
tamburella il ritmo dello Sguardo
sull’esistenza. Uno Sguardo matrice che lascia sedere l’Io Vedente su una
poltroncina rossa di teatro a guardare senza essere guardato, in dialogo con la
Vita.
Tutto
ruota intorno ad una posizione da spettatore mai estraniato. Uno spettatore
intimamente partecipe al gioco della luce, al movimento della luna, allo
sciabordio lento del mare, all’incipit della notte, al dondolìo delle Galleggianti nel porto del Pireo, ai
movimenti delle bocche-orifizio dei pesci gravati dal peso dell’acqua.
Molto
s’attarda nella fragilità dell’aria salata che entra ed esce dai pori
carottandoli[2] come crateri fetali che assorbono e bevono e
risucchiano il sentire. Lo spazio dell’azione è stretto, risicato.
Spazio perimetrato di una stanza-budello di pietra. Il corpo si tiene nel
chiuso. Il corpo è al riparo dall’invasione dell’occhio esterno.
Nella
stanza aleggia una nettezza nelle cose. Per ogni aspetto della realtà ne
compare sempre un altro: il finito mostra lo stringente segreto di una crepa
che conduce oltre.
Il
mondo è osservato da questo pertugio all’interno del quale il fuori e il dentro
s’avvinghiano lacerando ogni possibile separazione di prospettiva. Mai nulla di
onirico attraversa questo Sguardo.
È
Sguardo che si nutre di una particolare essenza dell’assenza, è un’assenza
vissuta attraverso gli oggetti, è assenza che nutre il farsi ed il contorno
delle cose. È un’assenza che, mai, trasmette vuoto o
abbandono se non abbandono dello Sguardo all’interno della tavolozza-cosmo del
tutto.
“Se poi tento di parlare, il fiato della voce
appanna (come adesso) il vetro
e non vedo più ciò di cui vorrei
dire…”
Il
vetro della finestra si trasforma in mondo, oculo galileiano da cui scorgere
desiderio d’essere: occorre riparare lo Sguardo dall’immensità e la
finestra-filtro consente di esserci dall’interno del contenimento del
telaio-cornice.
È
contenimento che consente alla vita dello Sguardo di non perdersi-disperdersi
nell’infinito. Qui è sospesa ogni incredulità ed è attivata l’intera forza
dell’attraversamento e del rischio del vedere.
È,
ancora, un entrare-uscire dalla profondità del campo di pensiero poetico e
filosofico. La distanza è molla di
gomma. È distanza che sospende ogni reale misura
per andare ad annidarsi in un diaframma poroso tra interno ed esterno, tra chi
guarda e ciò che è guardato.
Il
telaio-cornice è mobile, si lascia trasformare in un dispositivo capace di
scattare effimere quanto potenti immagini regolate dal tempo di un clic lento.
È clic che insegue ogni millesimale
presenza. L’intensificazione dello sguardo diviene strumento di fluida verità.
“… E non capisco più niente, né tento di capire…”
Una
irrealtà pervade la realtà rendendola trasparente, diafana. Camminano le ombre e un canto basso e
un silenzio di tramonto inglicinato si buca per lasciar passare l’arcano di una
notte incipiente.
Dalla
Finestra si lasciano scorgere le
altre finestre. Sono piramidi capovolte da cui lasciar colare altre stanze,
tutte affacciate sul Porto, tutte imbevute dalle luci di fuori.
E
l’Io Vedente continua a fissare, mobile, l’andirivieni dei fili sottili di ciò
che si mostra, di ciò che si nasconde, di ciò che si lascia intuire dal molle
del Pensiero e dal Buio duettante del dentro.
…Allora ti vengono certe strane idee –non
succede anche a te? -
che ciascuno di noi forse è due
persone
con i volti coperti, entrambe
rancorose,
in disaccordo, riappacificatesi solo
in questo istante
per trasportare questa cassa, per
scavare con le unghie
poco al di sopra della spiaggia e
seppellirla.
E lo sai anche tu, come loro,
nonostante la loro segretezza,
che dentro la cassa giace un corpo
smembrato,
un corpo giovanile, molto amato; ed
è
il loro corpo, quello che hanno
ucciso e sepolto
come se fossero due estranei…”
E
l’Io Vedente si stempera, a tratti densamente acquoso, all’interno del punto da
cui si dipana la prospettiva che lascia esplodere e rende scheggia ogni
vagabondaggio del vedere. Compare il corpo. I suoi pezzi ricordano l’archetipo
gesto di Medea che lacera suo
fratello Apsirto lanciandolo verso
la direzione del padre dalla nave ormai salpata.
Ecco,
la Finestra mostra il tempo lungo, quello che lascia confliggere l’intero con
l’arroganza delle parti.
E
nella cornice della Finestra s’accalcano immagini di sogni, colori e misure.
Emergono lente, dagli spacci del Porto, le merci. Giungono da un oriente
dell’anima desiderante.
Il Porto, un universo umano rimpicciolito
ma, al contempo, ingrandito a dismisura dallo Sguardo, dietro alla Finestra.
L’andirivieni della Luce indora,
ombreggia, svela, incupisce, irradia, accarezza ogni pietra e ogni passo del
luogo trasformato dall’andare dell’Io Vedente, in immenso telo su cui
proiezioni e ontologie duettano.
“…Non c’è umiliazione, dunque, là
dove la vita chiede di vivere, là dove i cani frugano con versi gentili nel
mucchio della spazzatura
e le ragazze tengono alta la fronte
liscia sotto il peso dei capelli rigogliosi
come se portassero una brocca nera
con l’acqua silenziosa
temendo che cada…”
Con
l’arrivo della sera, il peso degli oggetti aumenta e tutto incamera spessore:
le sedie fuori dal bar, la lampada, la forchetta, i libri. La Finestra… conserva e prolunga le voci, il vento, l’ancora che
precipita in acqua: ciò ad allargare il sentire del ritorno o della sosta nel
viaggio.
L’Io
Vedente allarga il proprio sentire e innesta rete di ascolto di emozioni sulla
distanza, sul partire, sul tornare, sulla meraviglia.
Lungo
l’arco del soliloquio la Finestra prende a divenire un alter-ego che si mischia
con l’alterità presente sin dall’inizio nel testo.
Nello
scorrere del tempo tutto l’esistente s’impasta con il silenzio, l’immobilità,
il lucore di un ordine ma, lo scendere dentro l’antro di dentro della Finestra,
ha un tempo definito, un tempo che chiude cornice.
È come una frase che necessita un punto esistenziale in grado di permettere alla fatica del vivere la possibilità di restare in sé.
Accade, dunque, dietro alla Finestra, che
la realtà delle cose s’inveri grazie ad un sentire e ad un vedere che consente,
alle cose stesse, il raggiungimento di una propria verità all’interno di un
tranquillo ondeggiare tra l’empirico e il metafisico.
“… E non c’è più niente che pieghi
la tua vita e ti faccia abbassare lo sguardo,
e non c’è niente che tu non possa
mostrare con orgoglio e
cantare,
e non c’è niente che ti impedisca di
volgere il tuo viso verso
il sole.”
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